di Carlo Saitto, medico di sanità pubblica, già Direttore Generale della ASL Roma C 

Discutere il ruolo che l’epidemiologia può assumere all’interno del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), credo finisca per essere riduttivo e per fare un torto tanto all’epidemiologia che al servizio sanitario.

Il rischio di una riflessione tutta istituzionale mi sembra quello di  considerare l’epidemiologia soprattutto nei suoi termini strutturali di articolazione organizzativa e di servizio e di considerare il SSN soprattutto nella sua dimensione di apparato per la produzione di prestazioni.

In una simile prospettiva si finisce, magari inavvertitamente, per considerare l’epidemiologia come una disciplina che produce associazioni come altre specialità producono assistenza e ad appiattirla sull’oggetto della sua indagine che  questo sia la prevenzione, la promozione della salute o la clinica. È un approccio che si riverbera anche sul Servizio Sanitario nel suo complesso proponendone l’immagine, forse realistica ma distorta, di un insieme di attività e di interventi diversi e talvolta incoerenti, mestamente riepilogati dai livelli essenziali di assistenza o dai dati dei bilanci di esercizio. Si rischia di perdere il filo del significato e del ruolo che può assumere l’epidemiologia se il SSN non appare più come uno strumento, certo parziale e imperfetto, nell’attuazione del diritto costituzionale alla salute, ma come un fine in sé, giustificato dalle sue attività più che dai suoi risultati, una cittadella provvista di confini e qualche volta anche di mura che sembrano difenderla dai suoi utilizzatori.

Credo che la riflessione sull’epidemiologia non debba avvenire all’interno di questi confini ma che debba anzi provare a scardinarli, che debba assumere una prospettiva di sanità pubblica e che  debba contribuire ad aprire il SSN nel suo complesso ad una prospettiva di sanità pubblica. La sanità pubblica, in questa accezione, non deve essere intesa come una specialità tra le altre ma come il principio ordinatore del SSN, non semplicemente una sanità di popolazione, in contrapposizione logica all’area della cura e dell’assistenza alle persone, ma, al contrario una sanità pubblica attenta all’intreccio tra diritto alla salute degli individui e diritto alla salute delle comunità, che si ponga il problema di come garantire equità nel godimento di questi diritti e di come sia possibile negoziare i conflitti che si creano nella frizione tra questi diritti.

In questa diversa prospettiva l’epidemiologia, dal suo punto di vista e a partire dalla sua specificità tecnica e disciplinare che, per dirla in termini grossolani e semplificati, consiste nella definizione, nella valutazione e nella validazione delle associazioni tra determinanti ed esiti, da un lato condivide con le altre discipline sanitarie questa aspirazione a generare “valore salute” dall’altra avendo come oggetto un metodo invece che organi od apparati, interventi tecniche o procedure, si trova nella scomoda posizione di poter di potere essere da tutti accantonata.

L’esperienza drammatica della COVID-19, nonostante la sua natura epidemica riconducesse se non altro dal punto di vista semantico all’epidemiologia, ha visto sul proscenio una grande quantità di specialità e di specialisti, virologi, immunologi, igienisti, terapisti intensivi, medici di pronto soccorso, farmacologhi e farmacisti ma pochissimi epidemiologi e spesso più per rispondere a domande improbabili sul come sarebbe andata a finire che per discutere delle cose che conoscono: i rischi, le associazioni, gli intervalli di confidenza, la spiegabilità di quanto andava accadendo.

Per l’epidemiologia, forse più che per altre discipline, e certamente in parte per la sua natura astratta, la COVID-19 ha posto con grande forza la dimensione problematica della sanità pubblica, la sua natura costantemente duale.

Interrogarsi sull’epidemiologia consente allora di interrogarsi sulle apparenti antinomie della sanità pubblica. Analizzare i suoi problemi e il suo ruolo può aiutare a mettere in luce i  problemi che sono di fronte alla sanità pubblica e può servire a trovare qualche risposta utile anche per il sistema sanitario nel suo complesso sempre che si riesca a formulare per queste antinomie strumenti adeguati di descrizione e di misura.

La riflessione che propongo prova perciò a muovere da alcune di queste antinomie senza pretendere che esauriscano le questioni aperte ed utilizzandole soprattutto come un terreno in qualche caso esplicitamente provocatorio di discussione.

Ecco dunque  le  coppie di concetti alle quali intestare altrettanti spunti di ragionamento e molte domande con poche e iniziali risposte:

  • Indipendenza/Strumentalità
  • Disciplinare/Inter-Disciplinare
  • Certezza/Incertezza
  • Specialistico/Olistico
  • Clinica/Gestione
  • Sanitario/Amministrativo
  • Processo/Esito,
  • Etica/Politica

Indipendenza/Strumentalità

L’epidemiologia appare a prima vista come la più strumentale delle discipline sanitarie, applicabile a qualsiasi oggetto di indagine, da temi clinicia  temi organizzativi alla valutazione delle tecnologie. Il suo patrimonio sembra risiedere soprattutto nel possesso di una molteplicità di strumenti tecnici in grado di adattarsi, in modo rigoroso ad una  grande varietà di quesiti, alle diverse tipologie di dati disponibili, alle più diverse condizioni di contesto. L’epidemiologia subirebbe così le priorità dei suoi committenti confermandone o confutandone le opinioni ma accettandone, nella sostanza, gli interrogativi e i differenti assunti ideali.

Non è l’epidemiologia ad avere indicato i tempi di attesa per le prestazioni diagnostiche come un indicatore di qualità dell’assistenza, a suggerire l’uso indiscriminato del dosaggio del PSA, a proporre lo screening per il tumore della mammella, il robot chirurgico o lo stent coronarico. Non è l’epidemiologia ad aver posto il problema delle malattie professionali o dell’inquinamento ambientale, dell’educazione sanitaria o degli interventi di prevenzione.

Ma è davvero così? Davvero  può essere attribuito all’epidemiologia un ruolo passivo, una sfera di tecnica neutralità?

No, non è ovviamente così. Il peso dell’epidemiologia in un sistema sanitario che ponga al centro la salute pubblica è al contrario fortemente condizionato dalla sua indipendenza, che non è solo autonomia nei metodi e rigore trasparente nella presentazione dei risultati e neppure indipendenza dai legittimi appetiti di conoscenze dei diversi portatori di interesse, ma è capacità di definire in modo autonomo un’agenda delle priorità di salute che debbano essere investigate, delle associazioni che le caratterizzano, dei confondenti che inquinano queste associazioni.

Questo tipo di indipendenza comporta per un verso responsabilità di selezione delle priorità, ma dall’altro, nel rifiuto della insostenibile autosufficienza di saperne di più e meglio degli altri, anche modalità diverse di relazione con i portatori di interessi e con decisori.

Nello scegliere le priorità di salute si può adottare un approccio utilitaristico, una valutazione costo-benefici o costo-efficacia, una valutazione di equità nell’accesso ai servizi o di eguaglianza nei risultati di salute, un criterio di efficienza o uno di costo, se possono magari considerare diversi e magari ordinarli secondo un giudizio di rilevanza. Per scegliere però bisogna presentare in modo esplicito la propria posizione di partenza e individuare gli interlocutori con cui confrontarsi perché detengono competenze tecniche e scientifiche che l’epidemiologia non possiede e perché esprimono valori che precedono la scienza: la fiducia nella tecnologia o nella solidarietà, la convinzione sui benefici del progresso o della decrescita, la fiducia nel mercato o in un’economia regolata, nella supremazia dell’individuo o in quella della comunità.

L’aspetto fondamentale di questo processo è che, mentre i cardiologi possono nel loro ambito disciplinare confrontarsi solo o prevalentemente con altri cardiologi, l’epidemiologia dentro una prospettiva di sanità pubblica si deve confrontare con una pluralità di interlocutori anche per le scelte che riguardano gli oggetti o le priorità della sua ricerca. Da questo punto di visto la soggettività dell’epidemiologia, come quella del sistema sanitario nel suo complesso, nasce plurale e la sua indipendenza non riguarda il far da soli ,ma il fare insieme, sedersi intorno a un tavolo ed aprire la discussione non è un’opzione ma una necessità, la sua indipendenza si alimenta del confronto con voci diverse.

Disciplinare/Inter-Disciplinare

Come il sistema sanitario l’epidemiologia è dunque, per natura fondativa, interdisciplinare ed è, credo, profondamente sbagliato rincorrere un’epidemiologia delle specialità perché in questo modo alle specialità si risulta annessi. Nella farmaco-epidemiologia o nella epidemiologia ambientale o in quella dei servizi o nelle molteplicità di epidemiologie che possono nascere quello che rischia di prevalere è la disciplina lasciando alla epidemiologia una valenza aggettivante. Un’epidemiologia delle specialità nega nei fatti la interdisciplinarietà su cui l’epidemiologia nell’accettare il suo valore strumentale afferma però la sua indipendenza.

Nella moltiplicazione degli specialismi, che ha contraddistinto in modo addirittura eccessivo lo sviluppo della medicina contemporanea per l’espansione crescente dei saperi e per il frequente modularsi dei saperi intorno alle tecniche, è emersa invece la necessità di discipline che assumano la complessità del sistema sanitario e siano in grado di affrontare in modo trasversale tanto i problemi di salute del singolo quanto quelli delle comunità.

Questo mi sembra emerga sia a livello clinico che a quello di governo dei sistemi sanitari ed è evidente sia nel tentativo di valorizzare figure professionali esistenti come il medico internista o il medico di medicina generale, sia nel tentativo di crearne di nuove come è accaduto negli Stati Uniti con la creazione del cosiddetto “Hospitalist”, un medico che garantisca la coerenza intraospedaliera del percorso di cura o, in particolare in Gran Bretagna, con la scelta di formalizzare nel “Patient Manager” il ruolo di un professionista sanitario che accompagni nel tempo l’assistenza dei pazienti con patologie di lunga durata o con patologie croniche. Pure sul versante del governo, o più riduttivamente della gestione, esperienze più rare, ma presenti anche in Italia, suggeriscono l’importanza di garantire logiche di intervento trasversale che tengano insieme analisi dei costi e analisi dei risultati, analisi dei processi e analisi degli esiti,  valutazione economica e valutazione della salute.

L’epidemiologia è, per statuto, trasversale e per statuto dovrebbe porsi il tema della complessità offrendo una sponda, indipendente ma strumentale a queste molteplici esigenze che sono la dimensione strutturale di un sistema sanitario al servizio della sanità pubblica.

Nella crisi epidemica ancora in corso  l’epidemiologia ha svolto per lo più la parte del convitato di pietra. Rispetto all’esuberanza degli specialismi e al rincorrersi delle decisioni della politica, nazionale, regionale e talvolta anche comunale l’epidemiologia non è riuscita, o per meglio dire non è stata messa in condizione per l’avarizia spesso inspiegabile con la quale i dati sono stati resi effettivamente disponibili, di partecipare efficacemente alla discussione, di svolgere quel ruolo trasversale di integrazione tra le fonti e tra gli interlocutori che consentisse davvero la mappatura analitica dei rischi e delle associazioni che li sostenevano. Non lo ha potuto comprensibilmente fare nella prima fase dell’epidemia  ma non c’è riuscita neppure nella seconda. Un evento drammatico che sembrava imporne il coinvolgimento si protrae da 18 mesi e rischia di diventare per l’epidemiologia più un’occasione di ricerca che un problema di salute pubblica.

Certezza/Incertezza

Ma cosa può offrire l’epidemiologia al governo della complessità? Le evidenze generate dalle sue analisi, verrebbe da dire e sarebbe certamente vero. È quello che accade relativamente spesso per le decisioni cliniche, più raramente per quelle di governo o di gestione rispetto alle quali però l’epidemiologia riceve meno richieste e fornisce meno risposte. Sarebbe impensabile utilizzare un farmaco che  non abbia alle spalle sostanziose evidenze di efficacia, anche se talvolta accade ed i cui rischi di tossicità non siano stati adeguatamente valutati, anche se talvolta accade. Meno immediata è la considerazione che il contributo dell’epidemiologia non consiste soltanto nella produzione di, relative, certezze, ma nella sua capacità di definire, misurare e gestire le incertezze.

Da un certo punto di vista lo studio delle associazioni e delle possibili spiegazioni è anche studio di quello che non si associa e non si spiega, non della confortevole convergenza sui valori centrali della distribuzione ma sulle sue code e sugli scarti dei valori osservati rispetto a quelli attesi.

La parte più interessante e anche più inquietante dell’epidemiologia è forse proprio l’analisi degli scarti.

Questo non è un problema statistico ma, eminentemente, un problema di sanità pubblica:

Perché non funziona? Per chi non funziona.

L’ottimismo scientista delle certezze che ha caratterizzato la gestione dell’epidemia e che è stato brutalizzato dal suo decorso e dai suoi esiti avrebbe tratto grande vantaggio dalla capacità dell’epidemiologia di individuare, di provare a spiegare e di provare a raccontare l’incertezza.

Non è avvenuto così, siamo rimasti vittime prima di un’esagerata fantasia nel proporre le cure e poi della fiducia assoluta nel vaccino, efficace, estremamente efficace, ma solo perché i margini di incertezza sembravano limitati fino a quando le varianti  non li hanno di nuovo ampliati sgretolando la fiducia nel “proiettile magico” e nelle scelte perentorie di contenimento e di controllo.

Anche da questo punto di vista epidemiologia e sanità pubblica sembrano condividere un destino comune, le decisioni sono assunte in condizioni variabili di incertezza. L’epidemiologia offre alla sanità pubblica tanto gli strumenti per essere “relativamente” sicuri che quelli per gestire l’incertezza ed i primi sono solo un caso particolare dei secondi.

Anche se è difficile non nutrire qualche dubbio sulla sua realizzabilità, uno dei benefici secondari che l’epidemiologia avrebbe potuto e forse ancora potrebbe  al Servizio Sanitario e alla salute proprio nella crisi epidemica ed oltre la crisi è proprio un’educazione all’incertezza, il rifiuto delle cure assolute della soluzioni definitive, dell’assenza di dubbi. Il “proiettile magico” non si trova semplicemente perché non esiste.

Specialistico/Olistico

L’epidemiologia, nella sua natura intrinsecamente interdisciplinare e nel proporre provvisorie certezze cariche di dubbi, si presta inoltre ad accompagnare la evidente necessità del sistema sanitario di superare la fase dei tanti pensieri unici di trovare soluzioni originali a problemi nuovi, nuovi per la loro natura, l’epidemia da SARS-Cov2 ne è un esempio, ma nuovi anche per le condizioni di contesto  nelle quali si presentano e nuovi per la dimensione informativa della globalizzazione che consente non tanto e non solo la diffusione delle conoscenze quanto la creazione di una pluralità di “verità” alternative.

Gli specialismi rischiano paradossalmente di favorire questo fenomeno perché tendono a costruire saperi frammentati che guardano, spesso con rigore di metodo, ad aspetti specifici dei problemi assumere raramente il punto di vista del soggetto.

Per citare, totalmente fuori dal seminato, un libro recente sul conflitto israelo-palestinese dal quale ho imparato, lo confesso, un termine che non conoscevo, è come se si affrontasse la realtà pensandola composta di una serie di semplici quadrati e non da un APEIROGON, un poligono caratterizzato da un numero infinito ma misurabile di lati.

Che c’entra l’epidemiologia? C’entra per approssimazione, per la sua capacità di indagare relazioni semplici ed esplorarne la complessità continuando a dare loro un senso e una direzione, c’entra perché è in grado di passare se necessario da una tabella di contingenza  ad una regressione logistica multivariata che individui confondenti e determinanti che indaghi le relazioni tra determinanti, che attribuisca loro un peso e una direzione di effetto.

L’epidemiologia non è certo in grado di rappresentare tutta la complessità del mondo reale ma è in grado di provare a tenerne conto, almeno in parte, e di farlo in modo formale, rigoroso e …. incerto.

Un sistema sanitario si confronta con le persone, con le loro aspettative e con i loro dubbi e non semplicemente con le loro malattie e con i loro rischi. È difficile pensare, se  si vuole aggiungere salute alla vita delle persone e delle comunità, che lo si possa fare trascurando la natura complessa dei bisogni delle domande e delle risposte, fornendo interventi molecolari e pensando sia sufficiente verificarne la qualità.

Clinica/Gestione

La clinica è concentrata sul singolo caso, una diagnosi, oggi sempre più personalizzata, una trattamento e /o un percorso di presa in carico anch’essi auspicabilmente individualizzati, addirittura unici, auspica qualcuno, sulla base delle caratteristiche del singolo fino a tenere conto della sua costituzione genetica. La clinica sembra volersi progressivamente affrancare dalle classificazioni, dalle categorie e dalle generalizzazioni.

Non c’è più il tumore della mammella, l’ipertensione, il diabete o il COVID-19, ci sono “i tumori della mammella”, “le ipertensioni”, “i diabete” e “i COVID-19”, ciascun caso con le sue caratteristiche peculiari che renderebbero la nosologia solo un utile e rozzo contenitore.

Questa tendenza nasce dalla ricerca scientifica e le si rivolta contro rifiutandone le generalizzazioni, ma in particolare attacca, in modo radicale, l’epidemiologia che sulla possibilità di classificare e di generalizzare ha largamente costruito il suo sviluppo disciplinare.

Restituire all’atto clinico la sua assoluta unicità sembrerebbe valorizzare a tal punto l’autonomia del professionista da rendere impossibile a lui stesso una verifica sistematica della qualità e della coerenza del suo operato, di impedirgli insomma la gestione nel tempo della sua attività resa una successione di atti tra loro indipendenti.

Un simile scenario rischierebbe inoltre di svuotare la stessa idea di sanità pubblica, privatizzando le differenze.

È certamente un paradosso, ma chiunque abbia affrontato una discussione di budget e il concordamento con i clinici di obiettivi di qualità delle cure si è certamente trovato di fronte a qualche richiamo alla speciale complessità della propria casistica, alla sua difficile confrontabilità e, spesso, ad una preferenza per obiettivi di volume della attività svolta, preferenza apparentemente paradossale per un clinico che non solo accetta ma caldeggia l’assunzione di un criterio contabile.

Una parte del problema risiede nel fatto che il sistema sanitario raramente introduce nella discussione di budget una logica di sanità pubblica e raramente, a quel tavolo, alimenta questa logica con gli argomenti dell’epidemiologia ragionando sui valori attesi per quella popolazione composita e sulla variabilità attesa che la caratterizza.

Spesso l’epidemiologia si tiene prudentemente fuori, o viene tenuta fuori, dalla discussione di budget e quella che potrebbe rappresentare una riflessione sul rapporto tra prestazioni e salute, tra dimensione individuale e collettiva dell’assistenza e quindi sulla qualità degli interventi e sul loro impatto di salute diventa qualche volta un mercato di percentuali con la definizione di obiettivi neutrali, della cui natura sostanziale di controllo fiscale si cerca, con qualche ragione, di attenuare il peso.

Sanitario/Amministrativo

Il confronto tra la clinica e la gestione è il preambolo ad un'altra apparente dicotomia che caratterizza il Servizio Sanitario, una dicotomia tra sanitario e amministrativo che non dipende soltanto da un’ovvia necessità organizzativa ma che rispecchia due mondi paralleli caratterizzati da logiche diverse e appartenenti a sfere culturali largamente non comunicanti.

Per superare almeno in parte questa dicotomia bisognerebbe forse correggere una “svista” dell’epidemiologia che ha generalmente escluso le dimensioni amministrative del Servizio Sanitario dai determinanti della sua capacità di produrre salute.

La misura della qualità amministrativa e della sua efficienza è rimasta sostanzialmente affidata alle verifiche contabili. Si è persa così anche l’idea che l’amministrazione fosse strumentale alla generazione di salute e un  apparato amministrativo reso autonomo è stato ridotto alla sua capacità di contenere la spesa e di tenere in ordine i suoi conti.

Il peso della componente amministrativa nel raggiungimento di obiettivi di sanità pubblica è stata largamente sottovalutata anche quando  era palesemente rilevante, dalle decisioni sul reclutamento, alle gare di appalto e alle loro modalità di esecuzione, dai pagamenti ai sistemi incentivanti, dalla manutenzione alle esternalizzazioni. In modo analogo sono state oggetto di scarsa attenzione anche le decisioni con valenza amministrativa, esplicita o implicita, presenti in molte scelte sanitarie o assistenziali. Dalla scelta di una protesi alle indicazioni per una pompa da insulina, alla decisone di iniziare un’assistenza domiciliare o di variarne la durata, tutte decisioni di cui raramente si è analizzato l’impatto sull’orientamento della spesa e sugli esiti.

Sembrerebbero casi canonici per l’analisi epidemiologica, da un lato esiti di salute dall’altro una serie di variabili potenzialmente in grado di modificarli.  Questi temi sono stati oggetto invece di un interesse occasionale e distratto che non solo non ha definito criteri accetabili di buona amministrazione ma ha confermato la dicotomia oppositiva tra sanitario ed amministrativo.

Nell’anomalia di una simile prospettiva anche i costi sono diventati una variabile indipendente invece di essere messi in relazione con la quantità di salute prodotta e di diventare di diventare il denominatore di un’idea alternativa di efficienza , un efficienza di “missione” che avesse al numeratore questa quantità di salute,  invece che i volumi delle prestazioni tariffate.

Un approccio epidemiologico alla sanità pubblica è diffuso invasivo, ostinato, non ci sono nei processi sanitari zone franche, non vale l’aprioristica esclusione di possibili determinanti.

Anche in questo caso l’epidemiologia dovrebbe rivendicare e difendere la sua duplice connotazione di strumentalità e di indipendenza, di risposta e di proposta, una natura anfibia in un sistema sanitario che nel difendere una logica di sanità pubblica è anch’esso necessariamente anfibio.

Processo/Esito

Sulla nozione di esito  e su quella di processo non è sempre facile trovare un accordo, la distinzione non è sempre così netta come sarebbe conveniente fosse, soprattutto in sanità pubblica dove l’obiettivo è quello misurare un risultato di salute, sopravvivenza, qualità della vita, capacità funzionale, autonomia, benessere. Per fare riferimento ad una esperienza personale, mi trovai a sostenere in una discussione con un gruppo di diabetologi che i valori dell’Emoglobina Glicosilata (HbGlyc) erano un indicatore di qualità del processo di cura nella malattia diabetica. Mi fu obiettato che valori adeguati dii HbGlyc  erano in realtà l’esito auspicato delle cure e che il loro mantenimento nel tempo assicurava ai pazienti diabetici una sopravvivenza più lunga e meno afflitta da complicanze. Avevo ragione, credo, ma avevano ragione anche loro; se una variabile di processo si associa in modo documentato ad un esito è in fondo ragionevole considerarla come un esito di saalute, magari provvisorio. Questa obiezione mi parve talmente fondata che credo bisognerebbe introdurre in modo formale nella descrizione dei processi di cura definizioni diverse per le variabili di processo , quelle associate positivamente all’esito favorevole, quelle indifferenti rispetto all’esito, quelle negative rispetto all’esito ed  per quelle la cui associazione con l’esito è ancora ignota.

Si tratta certamente di una considerazione banale, scontata, in un sistema che si ponga obiettivi di salute ma basta dare un’occhiata ai LEA, i cosiddetti livelli essenziali di assistenza per rendersi conto che nel cuore del sistema questa è una posizione di minoranza. I livelli di assistenza contengono senza troppe distinzioni variabili di processo di tutti i tipi, positive, negative neutre ed ignote, alcune con una relazione con l’esito tanto remota e improbabile da essere impercettibile.

Non è una sconfitta per l’epidemiologia è l’espressione di una difficoltà del servizio sanitario ad orientarsi su un progetto di sanità pubblica e a superare la logica angusta della rappresentanza di un mosaico di aree di interesse giustapposte in cui tutti le parti possano trovare spazio , compresa l’epidemiologia cui si riconosce il Piano Nazionale degli Esiti.

Etica/Politica

Salute pubblica dunque ma salute per chi? In presenza di risorse che sono comunque insufficienti, possiamo immaginare ed anche accettare che qualche forma di razionamento sia necessaria e che sia necessario affrontare in modo trasparente le logiche e i criteri di questo razionamento, le basi sulle quali operare scelte eticamente problematiche.

Siamo invece di fronte a forme di razionamento implicite e fortemente diseguali che non correggono l’impatto degli squilibri sociali sui rischi e sulle cure e che in qualche caso li aggravano.

Non serve fare riferimento su questi temi ai dilemmi etici nell’uso delle terapie intensive che hanno contrassegnato la fase più critica dell’epidemia da COVID 19, o al cinismo che nella stessa circostanza ha caratterizzato la gestione di alcune  RSA e le avventate dichiarazioni di qualche personaggio autorevole. Il dato sulle disuguaglianze è un dato strutturale del sistema sanitario.

Se si confronta tra le diverse Regioni l’impatto sulla mortalità del livello di istruzione, in Val D’Aosta un basso livello di istruzione è associato nei maschi ad una mortalità più alta del 52% rispetto al livello di istruzione più elevato, in Molise l’eccesso di mortalità del livello più basso di istruzione è del 46%, in Lombardia del 43%, in Veneto del 41% . Anche le Regioni con l’impatto dell’istruzione più contenuto, Umbria e Marche, presentano un valore di mortalità per  i livelli più bassi di istruzione che risulta del 20% più alto rispetto a quello registrato per i livelli più elevati.

Se si considera l’Italia nel suo complesso la mortalità dei maschi con basso livello di istruzione è del 35% più alta rispetto a quelli con livello di istruzione più elevato.

Si può anche decidere che questo sia il prezzo da pagare allo sviluppo tecnologico che distribuisce i suoi benefici in misura proporzionale alla cultura, può darsi che esista un problema di difetto assoluto di offerta, può darsi che siano alcuni soggetti dell’offerta che si dimostrano in grado di orientare e selezionare la domanda, può darsi che le modalità di remunerazione incentivino alcuni tipi di prestazioni, può darsi che, in un sistema di offerta misto pubblico/privato, la componente pubblica non sia in grado di orientare in modo virtuoso la domanda o di calmierare l’offerta, può darsi che gli incentivi esistenti spingano anche i soggetti pubblici a privilegiare i volumi di prestazioni rispetto alla produzione di salute.

Rispondere a questi interrogativi e ai molti altri che possono essere considerati rilevanti non significa essere a favore dell’uguaglianza o del mercato, sostenitori del pubblico o della efficienza economica del privato significa invece costruire associazioni che consentano decisioni, magari anche considerando i possibili vantaggi di un sistema duale che distingue i ricchi dai poveri, nonostante l’epidemia e nonostante le disuguaglianze.

Il fatto che personalmente ritenga le disuguaglianze di salute una violazione dei diritti di cittadinanza e non un portato inevitabile delle differenze socio-economiche influenza solo marginalmente la mia convinzione che l’analisi su cosa le produca  e sugli squilibri e gli  sprechi che comportano sia una condizione ineludibile per le scelte di un Servizio Sanitario Nazionale e di qualunque sistema sanitario

Non esiste una sola politica, ma non esiste una politica che non si sostenga su un pensiero etico. Le analisi dovrebbero consentire solo di capire meglio cosa stia succedendo, quanto corrisponda alla propria visione del mondo e quali fattori compongano quel quadro e quanto quel  quadro sia esauriente. L’epidemiologia ha di suo l’etica della riflessione scientifica ma  nel sostenere le scelte della clinica e della politica finisce per chiarirne anche la valenza etica e ne rimane, in qualche misura, coinvolta.

Conclusioni

L’epidemiologia è una disciplina come le altre ma non è esattamente come le altre, non serve qua e là per sostenere qualche progetto, l’epidemiologia serve al sistema per praticare una scelta di sanità pubblica.

Altre discipline possono sopravvivere nel rapporto esclusivo con la clinica o con la tecnica, l’epidemiologia è invece avvitata ai destini della sanità pubblica e cresce con la crescita della sanità pubblica perché le offre strumenti che consentono di cercare spiegazioni, di affrontare l’incertezza, di decidere.

Le antinomie  che sono lo scheletro di questa sommaria riflessione sono alcuni dei terreni sui quali la sanità pubblica non ha solo bisogno di informazioni, ma ha bisogno di sintesi e di associazioni.

Si potrebbe obiettare che considero l’epidemiologia come il prezzemolo e che ne vedo ovunque la necessità, è in effetti cosi,  ho provato, con questa rapida carrellata di argomentazioni, a convincere della mia convinzione e spero di esserci almeno in parte riuscito.

L’ipotesi di un’epidemiologia ubiquitaria che innerva un progetto di sanità pubblica in grado di cambiare anche il SSN, richiede, inutile negarlo, un investimento rilevante sulle competenze, sulle strutture, contro la nostra pigrizia e contro la nostra tendenza a conservare quello che c’è, compreso il buono di quello che c’è.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è talmente afflitto da questa sindrome di conservazione che non cambia praticamente nulla e anche i pochi cambiamenti che propone non sono motivati dall’analisi e non si preoccupano neanche di esplicitare i risultati di salute attesi che si propongono. Non vorrei esagerare ma non è solo un piano senza epidemiologia è un piano contro l’epidemiologia contro la volontà di capire di spiegare di motivare di individuare determinanti ed esiti misurabili..

Come è possibile contrastare questi orientamenti?

Credo sia anzitutto necessario uno sforzo collettivo dell’epidemiologia, in tutte le sue articolazioni organizzate, che riesca a produrre critiche ragionate una prospettiva diversa, non ho quindi una soluzione ma solo qualche proposta, un’ipotesi di agenda sule cose che si potrebbero fare:

  • Una scelta culturale ancora prima che scientifica sulla centralità per l’epidemiologia di un progetto di sanità pubblica, sulle riviste negli interventi, nei convegni, nelle sedi nazionali di discussione.
  • La creazione di coordinamenti regionali dell’epidemiologia che superino i particolarismi disciplinari e che definiscano, nel proprio contesto regionale, le coordinate del progetto di sanità pubblica
  • L’avvio di una riflessione sul superamento dei LEA e sulla costruzione di indicatori di processo e di esito utili alla formulazione di obiettivi per un progetto nazionale di sanità pubblica
  • La richiesta alle Regioni e alle Aziende Sanitarie territoriali di costituire gruppi, coordinamenti, strutture di epidemiologia che possano con continuità dedicarsi in forme trasversali a fornire sostegno a i processi di analisi.
  • La richiesta al Ministero della Salute di individuare un interlocutore nazionale per l’epidemiologia, potrebbe essere la stessa AIE o un cartello delle società nazionali di epidemiologia, per discutere le modalità di attuazione del PNRR.

Faccio questa proposta con una presunzione che generalmente non mi appartiene, con qualche intenzionale ingenuità, con la consapevolezza che persone più esperte di me ne segnaleranno errori e incongruenze, ma con la passione sincera di provare ad uscire dalla palude dei particolarismi, delle piccole patrie, geografiche e disciplinari. Spero che questa passione mi meriti qualche indulgenza.

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