La scelta di fare medicina è legata alla mia personale esperienza con la malattia. Negli anni Cinquanta-Sessanta, quando lo sviluppo della tecnologia medica ospedaliera era ancora all’inizio, sperimentarono su di me, ragazzo, l’uso di nuovi farmaci, come i cortisonici, e l’uso di nuove tecnologie diagnostiche.

Poi, quando nel fatidico 1967-68 mi affacciai all’Università, l’impatto fu straordinario.

Da un lato, una facoltà strapiena di studenti. Alcuni insegnamenti affascinanti e stimolanti, anche se nel complesso prevalevano gli altri, quelli tenuti dai classici baroni della medicina, specialmente nelle materie cliniche degli anni successivi, centrati sulla vecchia semeiotica, sulla descrizione di decine di soffi e sintomi, lontani dalla tecnologia e dalla razionalità scientifica. Durante il corso di laurea, un gruppo non piccolo di colleghi, e io con loro, ritenne opportuno studiare direttamente sui testi inglesi.

Dall’altro, il corso di studi si svolgeva mentre, in parallelo, esplodeva il movimento. Le assemblee e le manifestazioni erano quotidiane, le emozioni e le idee continuamente sottoposte a esplosioni (anche non del tutto metaforiche). Non fu un’avventura particolare, ma fu l’esperienza di molti, cui lo studio della medicina piaceva per il suo carattere scientifico e razionale, ma che nello stesso tempo sentivano l’urgenza del cambiamento. Non era necessario conciliare l’approfondimento dell’equilibrio acido-base e le nuove conoscenze sui linfociti T, con i collettivi dove si discuteva del ruolo sociale del medico, della medicina come potere, dei gruppi omogenei di fabbrica.

Dopo la laurea si trattò di scegliere. Non mi indirizzai verso le discipline che sembravano naturale conseguenza del movimento sociale di quegli anni: la psichiatria, la medicina del lavoro; invece, rimasi nella strada intrapresa, anzi la accentuai, separando la dimensione sociale dal fare medicina. Un anno lo spesi nella specializzazione di anestesia e rianimazione, il massimo dello studio del corpo oggettivato; e dopo poco in ospedale mi avviai verso la mia formazione di medico come internista, soprattutto facendo lunga gavetta di pronto soccorso. Non seguii la prospettiva universitaria. Rifiutai l’Università, che comunque offriva solo tardivi sbocchi occupazionali, come futile e malata, troppo accademica e lontana. In quegli anni, si sperava di trovare la medicina scientifica e competente negli ospedali, da poco riformati in Italia, e promettenti, per la presenza di gruppi attivi e preparati di medici.

La mia personale crisi per il lavoro in ospedale arrivò ben presto. L’attività medico scientifica si riduceva sempre di più, il movimento dei medici ospedalieri venne sempre più mortificato dalla politica sia di governo sia di opposizione e fu sconfitto sonoramente nel decennio successivo. Mi fu sempre più chiaro che l’ospedale riproduceva continuamente se stesso, i reparti risistemavano i pazienti con interventi farmacologici, e la cronicità sempre più riconduceva lo stesso paziente con lo stesso problema. Nonostante i grandi cambiamenti intercorsi, lo sviluppo della tecnologia medica, il ruolo crescente e importante svolto dagli infermieri, subentrò la noia e la disillusione, la fine della voglia di sperimentare. Provai quindi a cambiare. La Direzione sanitaria mi parve un modo per modificare l’organizzazione sanitaria nell’ospedale e nel territorio. 

Poi, la specializzazione in igiene e in statistica sanitaria mi portarono a una modalità di conoscenza e pratica in cui il metodo epidemiologico era essenziale. Da lì, la scoperta dell’epidemiologia come disciplina capace di offrire interpretazioni e valutazioni empiriche mi donò di nuovo la passione della conoscenza. La sensazione di produrre qualcosa, anche se forse poco considerato e sconosciuto alla maggior parte dei colleghi. La possibilità piena di fare l’epidemiologo e applicarmi ai problemi della medicina clinica ha così ricongiunto, almeno così mi sembra in questa visione backward e quindi possibilmente affetta da grave errore, il mio desiderio di scientificità con la passione per la medicina che sono riuscito a riscoprire come biologia, tecnologia ma anche come scienza umana.

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