All’università volevo studiare biologia. Mi attraeva la genetica, si parlava di nuovi corsi di studio sulla biologia molecolare: mi affascinava l’idea di poter capire i meccanismi che danno origine alla vita. Dopo gli esami di embriologia, genetica umana e anatomia cominciai a sviluppare un interesse per le scienze che riguardano l’uomo e il mio piano di studi si orientò verso la biologia delle popolazioni umane. L’esame che catturò il mio interesse si chiamava – oggi sembra incredibile – «biologia delle razze umane», e apriva una finestra sulle differenze che esistono tra le popolazioni e ancor di più sulla variabilità all’interno di ognuna di esse. Per me era una vera rivoluzione di pensiero: l’interesse per il passato diventò dominante in quel periodo, per capire da dove venivano quelle differenze, e ancor di più quali conseguenze tutto ciò poteva aver sugli individui del presente. Con gli esami di antropologia, paleontologia umana ed etnologia trovai molte risposte si aprirono mondi e domande nuove. Comunque sia, al momento di scegliere la tesi non avevo ancora chiaro se mi volevo occupare delle popolazioni delle origini o di quelle viventi.

Come spesso accade, il caso e la necessità orientarono la scelta: all’istituto di antropologia e paleontologia erano arrivati molti scheletri di individui appartenenti a popolazioni mesolitiche che erano stati trovati in diversi siti dell’Italia meridionale, dell’Africa settentrionale e dell’Europa centro-orientale. Cosa avevano in comune e in che cosa si differenziavano? Alcuni reperti erano di difficile attribuzione, e sembravano più simili a gruppi diversi che al proprio. La scommessa era formidabile, e nuovi metodi sembravano prestarsi allo scopo: dalle scienze statistiche si erano sviluppati in quegli anni strumenti potenti e innovativi di analisi multivariata, e iniziavano a circolare pacchetti statistici computerizzati che offrivano analisi di questo tipo. Il professore di statistica mostrò grande interesse a una prima applicazione dei nuovi pacchetti; la docente di antropologia era entusiasta; il professore di biologia di popolazione, a cui chiedevo se avrei potuto applicare il mio lavoro anche alle popolazioni attuali, mi incoraggiò a farmi un’esperienza.

Lavorai presso un istituto di ricerche biomediche che mise disposizione i propri strumenti di calcolo elettronico, su cui si usavano le prime versioni dei software BMDP e SPSS. Si operava con schede perforate e la macchina perforatrice occupava metà di una stanza, nell’altra metà della stanza lavoravamo in 5 con telescriventi TTY e uno schermo condiviso, grande come una televisione degli anni Settanta, su quale si vedeva scorrere, troppo velocemente, il prodotto dei programmi di elaborazione.

Applicai l’analisi discriminante e fu un successo: i dati venivano interpretati con chiarezza: era ben leggibile la differenza tra le popolazioni, e gli individui dubbi si potevano assegnare in modo inequivocabile ai rispettivi gruppi. Mi apprestavo a offrire i risultati del lavoro al professore di biologia delle razze umane, quando il gruppo statistico del centro biomedico mi propose di lavorare con loro per fare l’elaborazione di dati epidemiologici. Avevo studiato timidamente l’epidemiologia nella preparazione dell’esame di genetica e ne avevo visto applicazioni nell’esame di statistica, ma l’attrazione a quel punto fu fatale: occuparsi di popolazioni viventi, collegare le nozioni di biologia alla distribuzione delle malattie, cercare di capire i perché di quelle malattie e delle differenze nella loro distribuzione. Avrei capito solo dopo molti anni che il tema della causalità era ed è il fulcro dell’epidemiologia, e che la complessità che vi ruota intorno mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.

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