È una grande responsabilità trovarsi nella comunità di Epidemiologia&Prevenzione (E&P) in questi frangenti storici. Si tratta ancora una volta di recuperare la proposta editoriale originaria della rivista, culturalmente ricca e feconda, per promuovere e veicolare una scienza e una medicina per il bene comune, non separate dalla storia, dai conflitti, dalle disuguaglianze, lontana dal peso e dalle contraddizioni del potere, e con una visione partecipata della costruzione della conoscenza per il cambiamento. Quando alla parola epidemiologia si affianca la parola prevenzione, ecco che quella proposta emerge con tutta la sua forza: prevenzione è ora, qui e adesso. Chi di quella comunità è parte è chiamato a esprimersi, a esserci; quando nel mondo avanza il rischio di guerra mondiale, accompagnato anche dal rischio di uso dell’arma atomica, quella comunità deve spendersi per la prevenzione, non può rimanere in silenzio.
In questo tempo di conflitti e guerre, le parole sono sempre più importanti. È un tempo, questo, di guerre fatte di sangue e distruzione, ma anche in cui la costruzione del consenso verso i poteri (economici, politici e militari) si avvale delle diverse forme tecnologiche che le rivoluzioni informatica e mass-mediatica degli scorsi decenni hanno reso ubiquitarie. Ci sono parole che vengono dette e parole che non vengono dette. Le parole “rischio di terza guerra mondiale” sono da anni pronunciate da Papa Francesco, ma oscurate, rese quasi ininfluenti nel torrente informativo mediatico. Ora le parole “bomba atomica”, non dette perché associate al rischio di terza guerra mondiale e al rischio di fine per l’umanità (si trema mentre si scrivono incredibilmente queste parole), sono progressivamente – con una facilità sorprendente – entrate nel vocabolario di alcuni tra i potenti del mondo e dei loro portavoce. Altre parole sono invece clamorosamente scomparse, almeno dal lessico prevalente. Mentre dovrebbero essere la guida certa per la politica italiana, e anche nostra, come cittadini e operatori di scienza di questa Repubblica, perché lì c’è la scelta più netta per prevenire gli effetti e i danni delle guerre eliminando alla radice il loro rischio­: «L’Italia ripudia la guerra», afferma infatti l’articolo 11 della Costituzione italiana.
Quale altro verbo, oltre al verbo ripudiare, avrebbero mai potuto trovare i nostri padri costituenti per esprimere in modo chiaro e assoluto la scelta per una nazione senza guerra? 
Siamo certi, noi cittadini, che, nelle recenti drammatiche sopravvenienze belliche scaturite dall’illegale e violenta aggressione della Russia all’Ucraina, le nostre classi dirigenti politiche, economiche, mediatiche siano state conseguenti al dettato di quell’articolo 11, che vuole il nostro Paese ripudiare la partecipazione ai conflitti? 
Recita ancora il citato articolo 11, che l’Italia consente «limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Siamo certi che quelle classi dirigenti abbiano accettato anche quelle limitazioni con lo scopo di favorire l’assicurazione della pace? Cosa sappiamo – noi che ci vorremmo battere per prevenire la malattia della guerra – dei reali processi decisionali nei quali alleati del nostro Paese sono coinvolti? Nel Memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994, registrato il 2 ottobre 2014, l’Ucraina con l’adesione di Russia, Stati Uniti, e Regno Unito ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare, con la consegna di 1.900 testate nucleari alla Russia, dopo lo scioglimento dell’URSS. Che ne è di quel processo di distensione di cui quel Memorandum faceva parte?

Per un progetto di prevenzione della guerra e di contenimento dei danni 

«Che ci fanno dei bambini
in un ospedale di chirurgia di guerra?»

Strada G. Una persona alla volta. 
Milano, Feltrinelli, 2022; p. 35

La prevenzione mira a eliminare il fattore di rischio e comunque opera per la limitazione dei danni quando il fattore è presente. E sta all’epidemiologia non far dimenticare né il primo né il secondo di questi compiti. Si ricordi che il processo legislativo dell’Italia per la definitiva messa al bando delle mine antiuomo è terminato solo recentemente (Legge 220/2021 “Misure per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, di munizioni e submunizioni a grappolo”), mentre l’Italia non ha aderito al trattato di non proibizione delle bombe atomiche (Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons, NPTW) delle Nazioni Unite.
È in corso da decenni un processo di progressiva concentrazione dei poteri economici, politici e militari nelle mani di un numero sempre più esiguo di persone e sempre più forte è la sensazione di essere semplici comparse in un teatro dove non si è attori. Pare un processo che coinvolge l’intero pianeta, indipendentemente dalle ideologie e dai sistemi politici dominanti: ovunque prevale l’idea che la concentrazione di potere crei un beneficio collettivo evidentemente aumentando le efficienze dei sistemi. Al di sotto di questa ideologia imperante sul piano generale, si muove la vittoria dell’ideologia liberista e neoliberista che ha frantumato ogni idea di bene collettivo, di bene comune, e ha imposto il primato dell’appropriazione individuale al di là e al di sopra anche degli interessi di sterminate moltitudini: si calcola che nel mondo il 20% delle persone detenga l’80% della ricchezza disponibile. È in questo contesto che si sta rendendo possibile l’avvicinarsi della terza guerra mondiale senza che quelle moltitudini abbiano parola e si sta rendendo concepibile l’uso della bomba atomica.
All’epidemiologia il compito specifico della parola prevenzione, perché di quella parola gli epidemiologi hanno competenza e conoscenza. Hanno specifica conoscenza degli effetti della bomba sulla salute delle persone avendo studiato gli effetti delle radiazioni, anche dopo generazioni, a seguito dell’uso fattone durante la Seconda guerra mondiale durante gli oltre 2.000 test eseguiti per mettere a punti gli ordigni nucleari e dopo alcuni incidenti avvenuti in ambiti civili. Hanno, quindi, il dovere di informare su ciò che rientra nel loro patrimonio scientifico e culturale. 
Coloro che partecipano alla comunità di scienziati che fa riferimento alla rivista Epidemiologia&Prevenzione sono anche chiamati a condividere e promuovere quel movimento scientifico e culturale che vuole una medicina nella società e per la società. Una medicina che non solo riconosce un ruolo a chi è malato, ma, nell’ambito della medicina sociale, anche a chi subisce un’aggressione alle condizioni familiari, di vita e lavoro; si tratta in questi contesti di considerare essenziale disporre di una valutazione collettiva delle modalità per contrastare i rischi e contenere i danni, quando si ha a che fare appunto con elementi collettivi di rischio. Insomma, una medicina per la prevenzione dove la conoscenza incontra la partecipazione dei soggetti coinvolti. 
E quanto siamo consapevoli, in questi drammatici frangenti storici, tutti noi moltitudine senza voce, cittadini di Nazioni in conflitto o a rischio di guerra, scienziati, di poter partecipare per dire collettivamente – con maggior forza in quanto cittadini della Repubblica italiana – il nostro ripudio della guerra e qui, ora, delle estreme conseguenze del possibile uso della bomba che – incredibile a scriverlo – pone a rischio l’intera umanità.

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