Giorni scorsi parlando con un collega della necessità di svecchiare e di rinforzare il nostro sistema sanitario mi sono sentito chiedere “ma se tu fossi Speranza, cosa faresti?”. Lì per lì la mia risposta un po’ scherzosa e un po’ no fu subito questa: “darei le dimissioni” pensando alla difficoltà dell’impresa, alla fatica di compierla per le tante forze che potrebbero opporsi, alla necessità di avere idee chiare e non solo di andare a soddisfare dei desideri per lo più ”consumistici”, cioè più prestazioni con accessi più veloci e con modalità più gradevoli. Anche questo è bene che ci sia, ma riformare la sanità non può certo essere solo questo.

Credo che “se fossi Speranza” (per fortuna non c’è alcun rischio …) comincerei cercando di avviare un dibattito ed una riflessione tra tutte le componenti della società civile come è avvenuto negli anni ’70 in preparazione dell‘833 ma anche come era già avvenuto cent’anni prima quando la riforma Crispi del 1888 era stata anticipata dall’inchiesta di Bertani e dalla prima formulazione di Depretis e da tanti altri scritti ed interventi di sanitari e non solo. Allora l’occasione che diede la scossa riformista furono le epidemie di vaiolo e di colera oggi l’epidemia da Covid-19, ma allora come oggi una ritrovata consapevolezza di tutti che la sanità non può essere solo questione individuale bensì innanzitutto riguarda la comunità.

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Le due concezioni “estreme” dell’impostazione della sanità sono quella di origine liberista che ritiene che lo Stato non si debba occupare della salute dei cittadini ma solo deve difenderli dai fattori che possono pregiudicarla e deve garantire che le offerte di prestazioni siano idonee ma a carico degli utenti, semmai auto protettisi da una assicurazione.

L’idea di marca socialista invece ritiene che la salute sia un diritto di cittadinanza e lo stato debba occuparsi di fornire ai cittadini tutto ciò che può servire per promuoverla o per ripristinarla; la 833 nasce con questo proposito.

In questi 40 anni di storia del Servizio Sanitario Nazionale, nonostante che il Ministero della Sanità abbia voluto chiamarsi Ministero della Salute, è successo quasi il contrario: ci si è sempre più occupati solo di malattie e sempre di meno di salute. Cosi si chiamava l’INAM, la mutua più importante che aveva sede nel alazzo oggi della Regione Lazio: Istituto Nazionale per l’assicurazione contro le Assicurazione Malattie istituita nel 1943 e così chiamata nel 1947 e poi soppressa nel 1977 per dar vita al SSN. Un altro passaggio critico fu il referendum che separò l’ambiente dalla salute e fece sì che in ambito clinico ci si occupasse sempre di meno dei determinanti ambientali ma solo delle patologie da loro indotte.

Se fossi Speranza, quindi, ripercorrerei innanzitutto la storia e cercherei di capire e di far capire per quali ragioni un sistema che, come dice l’articolo 32 della nostra Costituzione Repubblicana dovrebbe occuparsi della salute, si sia ridotto invece solo ad occuparsi delle malattie e spesso ahimè anche male di queste, se non solo quando siano gravi ed in fase acuta. Ci sono stati alcuni interventi illuminati, come ad esempio le leggi promosse dal Ministro Balduzzi, ma il sistema ed i suoi operatori, vuoi politici, amministratori e sanitari, non le hanno sufficientemente recepite.

Oggi non servono dei “cerotti” per coprire le ferite ed aiutare a rimarginarsi; oggi serve una terapia sistemica capace di introdurre una discontinuità nella riproposizione degli stessi meccanismi involutivi del sistema sanitario. Se questa discontinuità nasce dal tentativo di costruire un sistema capace di produrre salute, allora ci potrà restare Speranza di riuscirci!

Non basteranno certo l’affermazione e la volontà di raggiungere questi obbiettivi ma sarà essenziale saperli tradurre in forme organizzative, in compiti operativi, in figure professionali, in programmi di formazione dei medici e degli altri operatori di salute.

Senza voler qui esaurire gli argomenti mi permetto solo di accennare a qualche spunto di riflessione sui ciò su cui si dovrebbe aprire il dibattito e l’approfondimento collettivo. Non propongo qui soluzioni organizzative ma solo argomenti su cui riflettere e su cui lavorare, non soli i soli, ovviamente, ma possono essere inseriti in una agenda per i prossimi mesi o forse anche per i prossimi anni.

  1. Innanzitutto rivedere la relazione tra salute individuale e salute della comunità e favorire il più possibile l’unificazione dell’attenzione ai due aspetti. Oggi ad esempio l’approccio alla salute individuale dei medici ignora per lo più la loro collocazione nell’ambiente, nel lavoro, nella comunità e chi affronta questi argomenti non si occupa invece dei problemi individuali. Ovviamente ci sono problemi di divisione di competenze tecniche ma occorre assolutamente unità di visione e ci approccio.
  2. Ripensare alla distinzione tra benessere e salute che ha portato ad una divaricazione quasi totale tra assistenza sanitaria ed assistenza sociale. Moltissimi dei problemi delle persone coprono le due dimensioni che spesso sono una sola dimensione, quella del benessere. L’assistenza alle persone deve allora occuparsi il più unitariamente possibile ai diversi aspetti del benessere senza degli inutili sballottamenti tra uffici, norme e figure professionali diverse.
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  3. L’approccio diagnostico oggi è troppo farraginoso ed il malato viene inviato in vari luoghi che spesso ripetono gli stessi accertamenti. L’attività diagnostica, avviata per lo più dal medico di base che intravvede la sua impossibilità a compierla autonomamente, dovrebbe svolgersi in un ambiente multi specialistico capace di attivare percorsi efficaci in tempi accettabili. La diagnostica non deve più essere svolta con ritardi inaccettabili e da specialisti non coordinati ciascuno con la sua separata professionalità.
  4. L’assistenza terapeutica al malato deve anch’essa resa il più possibile coordinata mentre oggi troppo spesso non c’è relazione tra i diversi luoghi della sanità: medico di base, specialista, ospedale, ecc. Il percorso terapeutico deve trovare un reale unificazione e non solo informatica.
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  5. La salute non è solo una dimensione organica ma le persone necessitano anche di sentirsi ascoltate e di trovare una accoglienza vera.  L’erogazione delle prestazioni non può esaurirsi nel loro contenuto tecnico. Manca spesso negli operatori sanitari la capacità di relazionarsi nel modo corretto con le persone che si rivolgono a loro.
  6. La formazione di tutti gli operatori sanitari, medici infermieri tecnici, non può ridursi nell’addestramento alle operazioni tecniche che dovranno compiersi ma devono comprendere anche la comprensione dei problemi di governo sistemico, anche economico gestionali, e di relazioni interpersonali che riguardano sia i rapporti con gli utenti sia quelli tra operatori.
  7. La ricerca deve essere una modalità diffusa anche se ovviamente avrà dei punti di concentrazione. Solo però la consapevolezza che le decisioni devono seguire le evidenze scientifiche può far crescere l’efficacia e l’efficienza del sistema sanitario.
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  8. Sicuramente si dovrà ripensare l’assetto regionalistico del SSN ma senza rinunciare alla necessaria autonomia locale ma invece rafforzando le capacità di coordinamento centrale, sia all’interno delle Regioni che dello Stato.
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Nel 1878 Agostino Bertani proponeva una inchiesta parlamentare sulla salute; oggi abbiamo molte informazioni, molte indagini, molti dati, ma forse non sappiamo leggere ed usare tutta questa ricchezza informativa. Forse abbiamo interessi opporti e conflitti economici e politico istituzionali. La sanità, non lo scordiamo, è anche un gran mercato che può promuovere anche grandi profitti. Se l’impresa privata è capace di fornire prestazioni efficaci a costi corretti può sicuramente integrarsi nel sistema ma quando cerca di creare delle oasi di privilegio o di inutili offerte senza indicazioni di opportunità, allora non le si deve dare più spazio di quello di cui già sa anche troppo approfittare.

La riforma del Servizio Sanitario Nazionale potrà compiersi solo dopo che si sia diffusa la consapevolezza dei problemi principali e delle soluzioni più opportune allargando il più possibile il dibattito a tutte le componenti della società civile come era successo negli anni ’70 in preparazione della riforma poi realizzata con la 833 e purtroppo in tanti aspetti mai del tutto implementata.

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