Riassunto

Negli anni Sessanta, quando a Rémy Carle fu chiesto che ruolo potessero avere i cittadini nella scelta del governo francese di costruire decine di centrali nucleari, l’allora direttore di Electricité de France rispose senza imbarazzi: «Non si avvisano le rane quando si sta per drenare lo stagno».

Oggi lo scenario è drasticamente mutato: in Francia, come in ogni altra nazione industrializzata, ogni tentativo di imporre dall’alto decisioni con un potenziale impatto per la salute e per l’ambiente senza coinvolgere le comunità esposte rischia di generare conflitti sociali insanabili.

Negli anni Sessanta, quando a Rémy Carle fu chiesto che ruolo potessero avere i cittadini nella scelta del governo francese di costruire decine di centrali nucleari, l’allora direttore di Electricité de France rispose senza imbarazzi: «Non si avvisano le rane quando si sta per drenare lo stagno».

Oggi lo scenario è drasticamente mutato: in Francia, come in ogni altra nazione industrializzata, ogni tentativo di imporre dall’alto decisioni con un potenziale impatto per la salute e per l’ambiente senza coinvolgere le comunità esposte rischia di generare conflitti sociali insanabili.

I motivi di questo mutamento sono molteplici e investono i rapporti fra istituzioni politiche, i saperi tecnico-scientifici e la società civile, non più fondati su una fiducia incondizionata nel progresso, bensì una fiducia condizionata dalla capacità di esperti e istituzioni di rispettare ciò che oggi è considerato un nuovo diritto di cittadinanza: l’inclusione nei processi decisionali.

Per questo, da oltre due decenni la Francia ha deciso di affidare le decisioni sulle grandi infrastrutture a una procedura partecipativa chiamata débat public, istituita nel febbraio 1995 con una legge nazionale (www.debatpublic.fr).

Il débat public origina dalle proteste contro la linea ferroviaria ad alta velocità Lione-Marsiglia, e il pensiero corre inevitabilmente alla Val di Susa, dove il tentativo di imporre l’opera in modo autoritario ha precluso ogni possibilità di dialogo. La Francia ha invece risposto istituendo la Commission Nationale du Débat Public (CNDP), un’autorità amministrativa indipendente con il compito di sottoporre a discussione pubblica i progetti di costruzione delle grandi opere.

In sintesi, funziona così: il proponente ha sei mesi per redigere un dossier che illustri il progetto in un linguaggio accessibile anche ai non esperti; il dibattito è aperto a chiunque voglia partecipare, dura quattro mesi e valuta le caratteristiche, gli obiettivi e l’opportunità stessa di realizzare l’opera; la CNDP raccoglie i risultati della discussione e li sottopone al proponente che ha tre mesi di tempo per decidere se proseguire, modificare o ritirare il progetto.

Le ormai numerose (e consolidate) esperienze di partecipazione ai processi decisionali – di cui il débat public applicato in Francia rappresenta solo un esempio paradigmatico – nascono per ampliare gli spazi di inclusione nella democrazia rappresentativa. Si differenziano, però, dalla democrazia diretta perché generalmente lasciano alle istituzioni l’onere della decisione. Le arene partecipative, inoltre, hanno sempre una durata limitata, finalizzata a discutere temi specifici che di volta in volta coinvolgono stakeholder differenti.

Sono procedure altamente strutturate e prevedono sempre un confronto con i saperi esperti per assicurare dibattiti informati. La portata dei processi può variare, ma è cruciale che sia definita a priori: nel modello britannico, per esempio, le istituzioni promotrici si impegnano ad accogliere le raccomandazioni ricevute o, in caso contrario, a fornire pubblicamente le ragioni per cui saranno disattese.

Premesso che la partecipazione va intesa come un’opportunità e non come una panacea, le diverse esperienze di inclusione sperimentate ormai in molti Paesi, dalle giurie di cittadini, alle conferenze di consenso, ai sondaggi deliberativi, hanno dimostrato che, se ben condotte, limitano il rischio che le controversie si polarizzino e rafforzano la fiducia fra istituzioni e cittadini.

L’esigenza di ampliare il coinvolgimento nei processi decisionali non risponde solo a una richiesta di democrazia: nella cosiddetta società del rischio è resa necessaria dal fatto che le controversie sui rischi spesso nascono dalla necessità di prendere decisioni in condizioni di incertezza, in cui le conoscenze tecnico-scientifiche disponibili non sono sempre sufficienti a indicare una soluzione univoca.

Sebbene anche in Italia si contino centinaia di esperienze partecipative, si tratta di processi condotti solo su scala locale e in assenza di un quadro normativo che definisca quando queste procedure sono auspicabili o necessarie. Inoltre, sebbene non manchino i successi, talvolta le pratiche di partecipazione sono condotte in modo dilettantistico o, peggio, usate come strumento di persuasione per avallare decisioni già prese. Ciò rischia di creare diffidenza e ostacolare la costruzione di una vera cultura della partecipazione, collante sociale prezioso per gli odierni rapporti fra cittadini, esperti e istituzioni.

Conflitti di interesse dichiarati: nessuno.

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