Franco Carnevale ci propone una riflessione sul significato della medicina del lavoro, ripercorrendo le tappe storiche che ci hanno portati al ruolo di questa disciplina nel nostro Paese come oggi lo conosciamo.
Pioniere della medicina del lavoro è stato Bernardino Ramazzini, il cui libro De morbis artificum diatriba è considerato il primo libro di patologia occupazionale scritto in Italia. Ma, si sa, nemo propheta in patria: dunque, i semi di Ramazzini sono raccolti nel mondo anglosassone, ma non in Italia.
Bisognerà aspettare il XIX secolo affinché si inizi a dar peso a questioni quali il lavoro minorile e le implicazioni sanitarie dei processi di lavorazione di alcuni materiali (ardesia, tabacchi, carta, per citarne alcuni).
A fine Ottocento e nei primi anni del Novecento, vengono istituite le prime iniziative statali: assicurazione obbligatoria, obbligo di reclutare medici e infermieri in azienda, ispezioni del lavoro. Ma la loro regolamentazione appare ancora debole. Pochi sono in questa fase coloro che avvertono l’insufficienza del progresso dedicato alle malattie professionali e conducono inchieste che danno corpo a una più sostanziale analisi delle condizioni sociosanitarie della popolazione operaia. Risulta preclusa la possibilità a tecnici altrettanto motivati di accedere ai luoghi di lavoro per poter valutare con indipendenza e competenza pericoli e rischi.
Fra le due guerre, la medicina del lavoro si ritrova orfana della prevenzione, poiché i medici preferiscono dedicarsi alla ricerca clinica e alle attività che ruotano intorno all’assicurazione, passando così il messaggio che l’indennizzo monetario della malattia professionale sia sufficiente.
Il passaggio dal fascismo alla repubblica è di continuità: il ruolo dell’ente assicuratore nei congressi e nelle attività dei medici della SIML è di tipo egemonico. L’Inail è sponsor primario dei congressi della società, costruisce le sedi degli Istituti di medicina del lavoro, dei quali è il maggior committente, perché vi invia i malati per gli accertamenti di malattia professionale e per le cure dei malati più gravi, che in quei luoghi vanno a morire. I risultati delle visite mediche periodiche spesso servono solo a giudicare i lavoratori non più adatti al proprio lavoro. D’altra parte, vige la monetizzazione del rischio.
Per vedere colmare il ritardo accumulato rispetto agli altri Paesi europei, occorre precostituire con risolutezza cambiamenti da recepire poi in una legge di riforma, per tendere a generalizzarne l’applicazione. Ciò è successo grazie al movimento che si può sinteticamente denominare “linea sindacale per la salute in fabbrica”: un movimento molto ampio, capace di coinvolgere tante forze della società, sino a reclutare anche operatori “parcheggiati” per tanto tempo in istituti dediti alla pratica della medicina del lavoro senza prevenzione o a quella di consulenza per le aziende, sterile dal punto di vista realmente preventivo.
Dopo una carrellata dei personaggi più illustri della medicina occupazionale italiana, Carnevale conclude con un brano tratto da un testo del 1939 di Luigi Carozzi, dove si cerca di definire il termine “medicina del lavoro”: il punto di partenza è la considerazione del termine “lavoro” nella sua accezione più ampia, che ingloba anche la vita fisica ed economica del lavoratore e di chi gli sta intorno. La medicina deve, quindi, recuperare anche il suo ruolo sociale.

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