Con le direttive 90/547/CE e 90/377/CE, l’Unione Europea ha iniziato un percorso verso un unico mercato dell’energia elettrica e del gas «per aumentare l’efficienza della generazione, la trasmissione e la distribuzione di tale prodotto, rafforzando nel contempo la sicurezza dell’approvvigionamento e la competitività dell’economia europea nonché rispettando l’ambiente», garantendo una concorrenza «trasparente» tra le imprese produttrici e consumatrici di energia e la «protezione del consumatore » ovvero gli «obblighi di servizio pubblico».

Fulcro della «liberalizzazione» è la concorrenza tra le imprese con nuovi impianti di generazione, la garanzia di poter immettere l’energia prodotta nella rete di trasmissione nonché la possibilità (ancora limitata) di scegliere il fornitore dell’energia. Il tutto regolato da un sistema di controllo – per la tutela dei consumatori – che agisce con diverse figure istituzionali e prescrizioni, in particolare mediante un «gestore della rete di trasmissione » responsabile della rete nazionale di trasmissione, con il compito di garantirne l’accesso – a parità di condizioni – per i produttori di energia e assicurare la sua efficienza e la disponibilità a tutti gli utenti; modalità definite di gestione delle reti di distribuzione (dirette ai consumatori); un sistema di contabilità unificato e trasparente delle imprese di generazione, trasmissione e distribuzione.

Il Dlgs 79/1999 (decreto Bersani) prescrive che «a decorrere dal primo gennaio 2003 a nessun soggetto è consentito produrre o importare, direttamente o indirettamente, più del 50 per cento del totale dell’energia elettrica prodotta e importata in Italia ». La norma, unica tra i paesi dell’Unione Europea, ha inteso rompere la posizione predominante dell’ENEL che ha dovuto vendere centrali elettriche per complessivi 15.000 MWe (ma c’è chi spinge per ulteriori cessioni).

L’obiettivo della direttiva di evitare l’abuso di posizione dominante è stato tradotto in Italia con l’eliminazione della posizione dominante (un abuso?) dell’ENEL conseguente alla nazionalizzazione dell’energia elettrica negli anni sessanta (operazione attuata proprio per l’incapacità del libero mercato di garantire a tutti l’accesso all’energia elettrica). L’Italia ha così rinunciato a una programmazione in materia, dalla definizione dell’energia necessaria al sistema economico e dei consumi agli interventi per ridurre l’impatto ambientale, eliminando gli sprechi, e i criteri per l’autorizzazione di nuove centrali, ove necessarie.

L’assenza di programmazione (riconosciuta anche dalla Commissione attività produttive della Camera nella «Indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del settore energia» nell’aprile 2002) è stata aggravata dall’attuale governo con il cosiddetto «decreto sblocca centrali» (L. 55/2002) che ha introdotto («momentaneamente ») norme semplificate e centralizzate presso il Ministero delle attività produttive per autorizzare le centrali, riducendo tempi e valenza della «procedura di compatibilità ambientale» dei progetti (a tutt’oggi l’Italia non ha ancora recepito integralmente le direttive 85/337; 97/11 e 2001/42 in materia di valutazione di impatto ambientale; la direttiva 2001/42 è rivolta alla «valutazione d’impatto strategica», compresi i programmi in materia energetica, e non solo sui singoli impianti).

Il decreto sbloccacentrali è stato presentato come necessario per evitare un black-out elettrico prossimo venturo (un deja-vù: anche nel 1977 si paventò questo rischio per promuovere le centrali elettronucleari) ma soprattutto per ridurre la capacità di resistenza degli enti e delle popolazioni locali.
Il risultato del decreto Bersani e del decreto sbloccacentrali è stata l’esplosione delle richieste al Gestore rete di trasmissione nazionale per la realizzazione di nuovi impianti: ben 646, comprese 174 (al dicembre 2001) centrali termoelettriche, quasi tutte a gas naturale con potenza da 400, 800, 1.200, 1.600 Mwe. La nuova potenza installata che si verrebbe a realizzare è di quasi 100.000 MWe a fronte di una potenza attuale (al 2000) di circa 78.000 MWe (di cui 56.700 MWe costituite da centrali termoelettriche in funzione). Anche se non tutte queste centrali verranno realizzate, i numeri mettono in luce la corsa che è in atto in assenza di regole.

Nel 2001 la produzione netta destinata ai consumi è stata di 257.069 GWh a fronte di una richiesta della rete di 305.446 GWh (un deficit coperto dall’importazione di dall’estero). In realtà non vi è rischio black-out in virtù sia di un mercato europeo, con accordi di importazione a costi inferiori a quelli di produzione, sia in quanto le centrali termoelettriche esistenti sono utilizzate (per motivi commerciali) ben al di sotto della loro capacità produttiva (una «capacità di riserva » del 25%, maggiore che in altri paesi europei). Già oggi sono in corso consistenti interventi (in particolare nelle centrali ex ENEL) di trasformazione a gas naturale e con cicli combinati degli impianti con un consistente incremento di produttività (anche a parità di combustibile impiegato e senza nuovi impianti). Studi di alcuni anni fa avevano già evidenziato che l’introduzione di tecnologie a maggiore efficienza e con l’utilizzo di gas naturale avrebbe reso inutile la costruzione di nuove centrali e, nel contempo, avrebbe ridotto il complessivo impatto ambientale della produzione di energia elettrica. Vi sono analogie tra la corsa alla costruzione di centrali termoelettriche e quella per realizzare inceneritori: è assente in entrambi i casi ogni valutazione del reale fabbisogno produttivo. L’assunto è che il problema energetico (come quello dei rifiuti) va affrontato unicamente (o principalmente) dal lato dell’offerta (impiantistica di produzione o smaltimento) mentre viene relegata a un ruolo marginale la politica sul lato della domanda, per la riduzione dei fabbisogni energetici, per il risparmio e l’uso efficiente dell’energia (ridurre i rifiuti a partire dai cicli produttivi e riutilizzando/ riciclando quelli comunque prodotti).

I proponenti dei nuovi impianti a gas naturale ne presentano le virtù, quali la maggiore efficienza (il ciclo combinato), il minor impatto ambientale (rispetto alle centrali tradizionali), compresi gli effetti positivi globali di riduzione delle emissioni di gas serra grazie all’espulsione dal mercato dei vecchi impianti, il minor costo dell’energia, la possibilità di teleriscaldamento per le realtà locali eccetera.
Si tratta di tesi strumentali e l’opposizione alle nuove centrali (pur nelle peculiarità dei diversi comitati locali) sta portando a una presa di coscienza e a una critica simili a quelle relative agli inceneritori, contestando nel dettaglio i teoremi di base dei proponenti e evidenziando gli occultati (o sottostimati) elevati impatti ambientali delle singole centrali: elevate emissioni di inquinanti diretti e indiretti, elevati consumi di acqua o di modifica del microclima locale, scarichi idrici, rumore, inquinamento elettromagnetico connesso con le nuove reti di distribuzione dell’elettricità eccetera.
È vero che il fattore di emissione di un kwh prodotto da una centrale a gas naturale a ciclo combinato è inferiore a quello di una centrale tradizionale a vapore, alimentata da altri combustibili fossili, ma le norme spingono quasi esclusivamente verso l’obiettivo di produrre energia a minor costo per essere più competitivi e riuscire a cedere maggiore energia alla rete di trasmissione nazionale. Le «nuove» aziende propongono centrali a gas naturale compensando i maggiori costi dovuti a questo combustibile con tecnologie a maggiore efficienza di trasformazione; i gestori di alcuni impianti esistenti intendono arrivare allo stesso obiettivo economico utilizzando combustibili a minor costo (carbone, orimulsion, derivati petroliferi pesanti) in impianti a minore rendimento ma a maggiore impatto ambientale. Sotto il profilo ambientale il risultato complessivo delle diverse opzioni, speculari tra loro, è un incremento delle emissioni e degli altri impatti ambientali, sia per la produzione di una maggiore quantità di energia sia per il maggiore utilizzo di un combustibile ad alto impatto come il carbone. Così vi sono comitati nati contro la realizzazione di imponenti centrali a gas naturale e altri comitati che lottano contro la trasformazione di centrali esistenti (vedi Civitavecchia) da olio combustibile a carbone (secondo l’ENEL si tratta, ovviamente, di «carbone pulito») e anche contro centrali a biomasse.

La concentrazione di proposte di nuovi impianti in ambiti territoriali limitati (per esempio nelle provincie di Pavia, Brescia, Foggia, Torino) ha inoltre fatto nascere collegamenti tra le realtà locali che hanno favorito una maggiore presa di coscienza dei temi energetici nel loro complesso e, da qui, al ruolo dell’energia nella attuale economia dello spreco, insostenibile per il pianeta.
Si è andati oltre l’opposizione istituzionale (quando c’è) più che altro fondata sulle competenze in materia (cambiando il soggetto che autorizza ma non il senso dell’operazione), verso la costruzione di una critica (sulla questione energetica come su quella dei rifiuti) che vede imputato il sistema economico nella sua interezza con la richiesta di un ripensamento progettuale dei sistemi produttivi nella loro globalità.

Alcuni indirizzi web di comitati e alcuni indirizzi e-mail di referenti locali

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