L’assenza di qualsiasi contrasto rischia però di corrispondere alla mancanza di un punto di vista unitario e di recepire una descrizione della complessità talmente variegata da renderla difficilmente leggibile. Sembra davvero difficile che il Bilancio di missione possa essere così versatile da costituire in modo soddisfacente «uno strumento a supporto dell’azienda nel governo del suo  sistema di relazioni:

con la Regione, per rendere conto del modo in cui declina la sua funzione strumentale nel perseguimento delle finalità di universalismo e di equità del sistema; con gli Enti locali, per saldare relazioni di fiducia, ancor prima che per supportarne (sic!) il ruolo di indirizzo e di controllo; con i professionisti, stakeholder rispetto al contenuto di informazione/valutazioni/confronto delle scelte che le aziende compiono in tema di valorizzazione delle riorse umane…. O di supporto alla ricerca e innovazione, ma soprattutto attori protagonisti, co-responsabili del profilo dell’Azienda quale si delinea, nella sua unitarietà e peculiarità… con le Università, per il ruolo più pregnante che hanno assunto» (pp. 31-32)

Questa tendenza polisemica del Bilancio di missione, nella varietà dei destinatari/utilizzatori e dei linguaggi adottati, più che essere il risultato di un percorso partecipato di sviluppo sembra piuttosto l’esito di una scelta programmatica che dissocia indicatori e narrazione e propone un dualismo tra misura e racconto quasi a intendere che questa sia la strada per parlare ai tecnici e ai “laici” se non  si vuole trascurare il fatto che l’autonomia delle aziende si esprime

«nel farsi interpreti congiuntamente delle politiche regionali e delle istanze espresse dalle comunità locali attraverso le relative rappresentanze istituzionali»

E' difficile non vedere in questa affermazione il rischio che il Bilancio di missione diventi una sorta di captatio benevolentiae uno strumento per costruire consenso più che per rendere conto... Accedi per continuare la lettura

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