Il testo proposto da Carlo Signorelli et al. mi pare molto documentato ed equilibrato.
Condivido l’analisi secondo la quale

  1. gli enunciati del nuovo articolo 117 della Costituzione sono «piuttosto generici», in particolare con riferimento all’introduzione dell’istituto delle «disposizioni generali e comuni»;
  2. la tendenza alla centralizzazione delle decisioni in materia sanitaria è di fatto già in atto da numerosi anni, a prescindere dalla revisione della Costituzione;
  3. l’impatto della riforma non potrà essere “stravolgente” rispetto all’attuale assetto del servizio sanitario.

In questo contributo mi propongo di aggiungere alcuni approfondimenti sull’impianto complessivo della revisione.  Per correttezza nei confronti dei lettori, mi sento in dovere si precisare che ho firmato un documento dal titolo «Noi parlamentari del PD per il No al Referendum».1

1. Il Titolo V, la cenerentola della riforma Costituzionale

La riforma del Titolo V è stata la “cenerentola” del dibattito politico, tecnico e mediatico sulla riforma della Costituzione. L’attenzione si è concentrata su aspetti dell’ordinamento della Repubblica (il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Governo) certamente importanti per il futuro del nostro Paese, ma che hanno finito con l’oscurare modifiche che attengono direttamente al funzionamento delle amministrazioni che devono erogare i servizi alle persone (le Regioni, le Province e i Comuni) e che avrebbero potuto rendere la riforma meno lontana dalla vita quotidiana dei cittadini. Basti pensare che, in occasione della prima lettura al Senato, il Titolo V non è stato nemmeno discusso in Commissione Affari Costituzionali, come invece avrebbe dovuto essere fatto in base ai regolamenti parlamentari, oltre che per favorire la presentazione in Aula di un articolato sufficientemente approfondito e condiviso. L’analisi delle modifiche è stata infatti eccezionalmente rinviata all’Aula e la discussione in Assemblea è stata condizionata dai tempi ristretti imposti dal Governo e dalla oggettiva difficoltà a entrare nel merito delle modifiche in un contesto politicamente complesso.2

2. Il rischio di una nuova stagione di cambiamenti complessi e dagli esiti incerti

Per quanto riguarda la materia della tutela della salute, la revisione del Titolo V contenuta nella legge costituzionale sottoposta a referendum confermativo costituisce a mio giudizio un’occasione perduta.
Dopo la modifica del Titolo V del 2001, che aveva dato avvio a una fase caratterizzata da riforme poco chiare, di complessa attuazione e dagli esiti incerti, qualunque nuova riforma avrebbe dovuto evitare una stagione di cambiamenti indeterminati e problematici. Il processo avviato con la riforma del 2001 aveva, infatti, comportato una rilevante produzione normativa, purtroppo in termini più quantitativi che qualitativi, con continui rinvii a numerosi successivi provvedimenti attuativi (normativi e amministrativi) in larga parte ancora da adottare e con interi capitoli mai aperti. Valga per tutti il caso dell’articolo 120, comma 2, della Costituzione vigente, il quale prevede che, qualora lo richieda «la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», il Governo possa essere chiamato a esercitare poteri sostitutivi nei confronti delle Regioni, delle Città Metropolitane, delle Province e dei Comuni. In questi anni, il Parlamento non ha mai adottato la legge di attuazione di tale articolo, nonostante la diffusa preoccupazione per le differenze interregionali nella garanzia dei diritti civili e sociali (in particolare nelle politiche sanitarie e sociali), argomento peraltro più volte utilizzato a giustificazione della modifica della Costituzione attualmente sottoposta a referendum.Le difficoltà che sta vivendo il nostro sistema sanitario hanno in realtà poco a che fare con i contenuti del Titolo V della Costituzione vigente. Per questo ritengo che la riforma sia di scarsa rilevanza, ma soprattutto sia un’occasione mancata.

3. La debolezza dello Stato nell’esercizio delle proprie competenze esclusive

Non sono mai stata un’accesa sostenitrice del decentramento3 e, in tempi non sospetti,4 ho espresso preoccupazione circa i rischi per la sanità del federalismo fiscale, ma le responsabilità imputate in questo momento alle Regioni mi paiono francamente generiche e spropositate. Vero è che alcune amministrazioni regionali si sono mostrate inadeguate, tecnicamente e politicamente, rispetto al ruolo di tutela della salute loro attribuito dall’articolo 117 della Costituzione vigente, ma è altrettanto vero che il livello centrale si è mostrato in alcuni casi ugualmente inadeguato.
Lo Stato ha, per esempio, a Costituzione vigente, competenze esclusive nell’individuazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA), una responsabilità fondamentale che richiede la capacità di procedere non solo a definire i LEA, ma anche ad aggiornarli tempestivamente, tenuto conto dell’evoluzione dei bisogni, del progresso scientifico e tecnologico e delle compatibilità macro-economiche. Ebbene, come noto, dopo la prima definizione dei LEA nel 2001, avvenuta in realtà ai sensi della legge ordinaria e a pochi giorni dalla riforma del Titolo V della Costituzione,5 lo Stato non è più riuscito a produrre nessun aggiornamento degli stessi e solo dopo ben 15 anni siamo oggi prossimi a un nuovo importante provvedimento. Eppure i LEA del 2001 sono notoriamente da rivedere: non riconoscono alcune patologie rare, alcune prestazioni o presidi tecnologicamente avanzati, importanti procedure e, per converso, includono prestazioni ormai obsolete o comunque non adeguatamente regolamentate. A questo proposito va ricordato che in molti casi alcune regioni hanno negli anni anticipato l’aggiornamento dei LEA, prevedendo l’erogazione di alcune di tali prestazioni, per lo più a carico dei bilanci regionali. Si tratta di un (grave) caso di inerzia dello Stato nell’esercizio di competenze esclusive statali e di interventi (temporanei) dei livelli regionali tanto tempestivi quanto non riconosciuti dal punto di vista del finanziamento. Ne è riprova il fatto che, nell’attuale apprezzabile provvedimento di aggiornamento dei LEA (ormai prossimo alla conclusione dell’iter di approvazione), la relazione tecnica del Ministero della salute6 specifica che si tratta in alcuni casi di «allargamento a tutte le regioni […] della facoltà di erogare le nuove prestazioni» e non di una generalizzata introduzione ex novo.Attribuire più competenze allo Stato in un contesto in cui il livello centrale ha mostrato più volte di non essere in grado di svolgere appieno il ruolo esclusivo a lui già attribuito appare decisamente problematico.

4. Ogni livello di governo dovrebbe svolgere al meglio la propria parte

Un altro esempio di ritardo nell’esercizio delle competenze del livello centrale su temi che attengono ai diritti dei cittadini è quello del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). Dopo ripetute proroghe della data prevista per la chiusura degli OPG (l. 9/2011), spesso motivata dall’impreparazione delle regioni ma di fatto mai sostenuta concretamente né sanzionata dal livello centrale, il processo ha avuto inizio solo nel 2014, grazie all’impegno della Commissione Sanità del Senato e del sottosegretario alla Salute, ma il Governo ha aspettato ben 11 mesi prima di commissariare le regioni inadempienti,7 nonostante le precise disposizioni di legge e il mancato rispetto dei diritti di persone particolarmente fragili (l. 81/2014). Le timidezze del Governo in occasione di un provvedimento relativamente così circoscritto sono una spia delle debolezze del livello centrale nei confronti delle regioni e dimostrano che il problema non sta nel riparto delle competenze (tra Stato e Regioni), ma nella capacità di tutti i livelli di governo di svolgere al meglio il proprio compito. Appare sempre più chiaro che fondamentale è la qualità tecnica e politica dei decisori a tutti i livelli decisionali; modificare le competenze rischia di complicare ulteriormente il contesto, offuscare le responsabilità e rinviare la soluzione dei problemi.
Ciò che serve non è tanto una centralizzazione delle competenze, ma una maggiore responsabilizzazione di tutti i decisori ai temi della tutela della salute.

5. Più competenze esclusive allo Stato: una riforma che non aiuta ad ammodernare il Paese

Vi è un’ulteriore ragione per considerare la revisione del Titolo V sottoposta a referendum confermativo un’occasione mancata.
Il previsto ri-accentramento di alcune competenze rischia di accentuare la tradizionale tendenza della burocrazia e della politica del livello centrale a concentrarsi prevalentemente nelle funzioni di normazione, continuando a trascurare i temi della verifica dei risultati raggiunti.
Si veda il caso del monitoraggio dei livelli essenziali di assistenza garantiti, un esempio di sconfitta del sistema sanitario nazionale che non ha saputo ad oggi segnalare con adeguata celerità e forza le numerose lacune denunciate in alcune regioni da parte di cittadini, associazioni e centri di ricerca e, soprattutto, non ha saputo intervenire accompagnando le amministrazioni in difficoltà o sostituendosi ad esse a garanzia di diritti costituzionali. L’unico caso di successo è il sistema di controllo della spesa messo in atto dal Ministero dell’Economia in particolare nei confronti delle regioni in disavanzo, al quale peraltro non si è affiancato un altrettanto rigoroso sistema di verifica dell’assistenza sanitaria erogata, di competenza del Ministero della Salute. Lo sforzo culturale necessario al livello centrale per imparare a svolgere un ruolo diverso da quello tradizionale, non solo normativo e ispettivo ma di garanzia dei diritti dei cittadini, rischia di essere indebolito da una modifica del Titolo V che aggiunge ulteriori competenze legislative allo Stato. D’altro canto, la nuova formulazione dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione, che prevede l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia alle regioni a statuto ordinario «purché la Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio», rileva un’attenzione del legislatore al pareggio di bilancio a prescindere dalle modalità attraverso le quali tale pareggio può essere raggiunto, quando come è noto la via maestra per contenere i costi è la riduzione dell’offerta di servizi. Il comma, che peraltro non riguarda la salute ma le politiche sociali, è emblematico di una tendenza alla semplificazione a danno delle garanzie costituzionali.8

6. Dalla legislazione concorrente alle disposizioni generali e comuni: una terapia dilatoria per una malattia mal diagnosticata

Molto è stato detto con riguardo al superamento della legislazione concorrente contenuto nella riforma della Costituzione. È proprio così? Abbiamo risolto i problemi?La risposta è purtroppo problematica.
La legislazione concorrente (comma 3 dell’articolo 117) è formalmente abrogata, ma il problema del riparto delle competenze fra Stato e Regioni resta inalterato. Le competenze dello Stato in materia di tutela della salute passano, infatti, dalla determinazione dei principi fondamentali dell’attuale ordinamento alla determinazione delle disposizioni generali e comuni come proposto dalla riforma. Il passaggio dai principi fondamentali alle disposizioni generali e comuni non può che essere considerato critico. Per evitare incertezze e contenziosi si sarebbe potuto fare riferimento alle categorie giuridiche già presenti nella Costituzione e sulle quali la Corte Costituzionale si è già espressa più volte: i principi fondamentali (che informano altre norme) e le norme generali (che devono essere applicate in modo unitario e uniforme in tutto il territorio, assicurando parità di trattamento fra i cittadini). Le disposizioni generali e comuni sono al contrario una vera e propria novità, introdotta – su richiesta delle Regioni – per evitare scelte delicate e potenzialmente divisive, al solo scopo di rinviare al futuro la decisione. La delimitazione del perimetro delle disposizioni generali e, soprattutto, di quelle comuni resta tuttavia incerto, così come lo è l’ambito delle disposizioni che sono al contempo generali e comuni, ove prevalesse tale interpretazione. La nuova formulazione sembra comunque essere lasciata alle future scelte di Governo e Parlamento. In ogni caso l’applicazione richiederà tempo, interpretazioni e ulteriori pronunciamenti della Corte. Un po’ poco per una riforma che avrebbe dovuto superare la legislazione concorrente perché imputata di essere responsabile, secondo un’analisi in verità molto sommaria e in gran parte infondata, del contenzioso fra Stato e Regioni e delle differenze interregionali nell’assistenza erogata.
L’esame della giurisprudenza costituzionale mostra tuttavia come la materia concorrente abbia cessato da anni di essere fonte di significativo contenzioso, mentre più rilevanti sono le questioni attinenti alla competenza esclusiva dello Stato, in particolare i livelli essenziali di assistenza sanitaria. In questo senso si ritiene di poter affermare che, su questo aspetto, la riforma è destinata a produrre effetti inevitabilmente limitati: propone una terapia dilatoria per una malattia mal diagnosticata (anche se spacciata per grave). I possibili vantaggi e i possibili rischi dipendono in gran parte dal modo in cui saranno interpretate le novità, ovvero ancora una volta dalla qualità della legislazione ordinaria e soprattutto dalla qualità della dirigenza, tecnica e politica, del livello nazionale e regionale cui sarà demandata l’attuazione delle novità. Il tema si sposta quindi su un'altra questione.

Sintetizzando, per quanto riguarda la sanità, la revisione del Titolo V della Costituzione appare in grado di produrre effetti del tutto limitati rispetto ai molti problemi che il nostro sistema sanitario sta attraversando e al contempo appare capace di generare incertezze e contenziosi che rischiano di offuscare le responsabilità dei diversi livelli istituzionali e di demotivare ulteriormente i professionisti. Largamente condivisibile è, per contro, l’attribuzione allo Stato di competenze esclusive sulle politiche sociali (sempre con riferimento alle disposizioni generali e comuni) anche per la possibile migliore integrazione con le politiche sanitarie. L’esito delle modifiche è comunque ampiamente lasciato al futuro apprezzamento di Governo e Parlamento.

Qui la versione del testo proposto da Carlo Signorelli et al.

Bibliografia e note

  1. http://www.libertaegiustizia.it/2016/08/05/noi-parlamentari-pd-per-il-no-al-referendum/
  2. http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00800392.pdf
  3. Dirindin N. Dieci domande sul federalismo fiscale. Ed Gruppo Abele, 2011.
  4. Dirindin N, Pagano E. Governare il federalismo. Le sfide per la sanità. Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 2001.
  5. La legge costituzionale di riforma del Titolo V è del 18 ottobre 2001, mentre la prima definizione dei LEA è del 29 novembre 2001. Il provvedimento di individuazione dei LEA è, infatti, stato adottato ai sensi del decreto legislativo 502/92 e successive integrazioni e modificazioni, ovvero ai sensi di una legge ordinaria.
  6. Ministero della salute, Schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri recante: “Nuova definizione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria”. (www.regioni.it)
  7. Il Commissario è stato nominato nel febbraio 2016, mentre alcune regioni erano inadempienti dal marzo 2015.
  8. Non a caso tutti gli emendamenti sul tema presentati in Senato sono stati respinti.
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