Riassunto

«Don’t call me resilient» proclama un cartello esposto all’esterno dell’Università di Lancaster (UK). E potrebbe continuare: «I don’t wanna be a victim». Già, perché la tanto magnificata resilienza – la capacità di reagire positivamente a eventi traumatici – potrebbe costituire un boomerang quando si ha a che fare con eventi prevenibili, come la maggior parte dei disastri ambientali.

«Don’t call me resilient» proclama un cartello esposto all’esterno dell’Università di Lancaster (UK). E potrebbe continuare: «I don’t wanna be a victim». Già, perché la tanto magnificata resilienza – la capacità di reagire positivamente a eventi traumatici – potrebbe costituire un boomerang quando si ha a che fare con eventi prevenibili, come la maggior parte dei disastri ambientali. Mettere troppo l’accento sulla capacità delle vittime di resistere e rialzarsi dopo l’evento rischia infatti di oscurare quello che deve rimanere il vero fine ultimo: evitare che i disastri accadano. Evitare in primo luogo di creare vittime.
Vittime che non sembrano più disposte a portare in silenzio il loro fardello e vogliono comunicare al resto del mondo che cosa significa sentire sul proprio corpo gli effetti del disastro. A questa esigenza risponde il portale Toxic bios presentato nelle pagine seguenti, che raccoglie i racconti di chi ha vissuto in prima persona ingiustizie ambientali.
A che cosa si deve questa necessità di farsi sentire? I motivi sono diversi, ma le radici affondano nella crisi e nell’incertezza che permeano l’approccio scientifico, epidemiologico in particolare, e che da anni gli scienziati più accorti non esitano a mettere in luce. Si prenda l’esempio delle Monografie IARC: un’esperienza innovativa per quegli anni (la prima è del 1972) che coniugava due diverse strategie di identificazione dei cancerogeni: la sperimentazione di laboratorio e l’osservazione epidemiologica sull’uomo.1
Le Monografie hanno avuto un impatto formidabile nella prevenzione primaria dei tumori. L’epidemiologia ne è stato un braccio, importante perché documenta effetti nella nostra specie che completano lo studio dei meccanismi di cancerogenesi in studi sperimentali di laboratorio facendo tesoro dell’esperienza di esposizione, involontaria, di gruppi o popolazioni. Con due punti di debolezza: il primo, la natura statistica delle valutazioni epidemiologiche e l’assunzione di nessi di causalità generale; il secondo, lo spostamento nel tempo di valutazioni epidemiologiche che si basano necessariamente su studi osservazionali di esposizioni pregresse (si veda Tomatis sul ruolo dell’epidemiologia rispetto agli studi sperimentali).
Sul primo punto, l’interpretazione degli studi osservazionali è difficile per la possibile presenza di distorsioni e di confondimento. Nella metodologia IARC la valutazione rigorosa degli studi epidemiologici si accompagna al requisito di aver ottenuto la pubblicazione su riviste con processo di revisione tra pari. Ma oggi la crisi della scienza vede come uno dei fattori proprio il fallimento della procedura di peer review nell’assicurare la qualità degli studi (tema, quello della qualità, molto caro all’epidemiologo John PA. Ioannidis).2 Sul versante più ampio della società, l’epidemiologia non è più creduta a priori.
Sul secondo punto, il rapporto con le popolazioni inquinate mostra tutte le sue lacune. Se ci vogliono 20 anni per vedere gli effetti di un’esposizione, noi esposti cosa siamo, cavie? E l’epidemiologo finisce per essere un dilazionatore di misure efficaci (nella migliore delle ipotesi, perché la capacità degli studi epidemiologici di mettere in evidenza rischi è comunque limitata, per cui l’evenienza di studi inconclusivi o altamente incerti è tutt’altro che trascurabile).
Dunque, svanita la capacità di legittimazione della scienza, la “gente” si orienta diversamente. Comunicare i risultati con l’incertezza e le difficoltà dell’epidemiologia è uno dei compiti che abbiamo, e su questo EpiChange trova giustificazione. In parallelo, la “gente” costruisce la propria scienza e i propri fatti.3 E pretende di essere ascoltata.

Bibliografia e note

  1. Saracci R, Wild CP. International Agency for Research on Cancer: the first 50 years, 1965-2015. Lyon, IARC 2015. Disponibile all’indirizzo: www.iarc.fr/en/publications/books/iarc5
  2. Ioannidis JPA. Why most published research findings are false. PLOS Medicine 2005; 2(8):e124. doi.org/10.1371/journal.pmed.0020124
  3. www.mammenoinceneritore.org
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