Riassunto

Per potervi presentare l’articolo “Stastical evaluation criteria for individual hematologial examination”, uno scritto dimenticato di Giulio A. Maccacaro e Carlo Polvani, ho avuto l’occasione di riprendere in mano alcuni lavori dello scienziato di Codogno, in particolare quelli sulle applicazioni biomediche della metodologia statistica e del calcolo elettronico, contenuti nel volume Per una medicina da rinnovare della collana Medicina e Potere, pubblicato a due anni di distanza dalla scomparsa dell’epidemiologo.

Per potervi presentare l’articolo “Stastical evaluation criteria for individual hematologial examination”, uno scritto dimenticato di Giulio A. Maccacaro e Carlo Polvani, ho avuto l’occasione di riprendere in mano alcuni lavori dello scienziato di Codogno, in particolare quelli sulle applicazioni biomediche della metodologia statistica e del calcolo elettronico, contenuti nel volume Per una medicina da rinnovare della collana Medicina e Potere,1 pubblicato a due anni di distanza dalla scomparsa dell’epidemiologo. Già nel preparare un capitolo del Trattato di medicina del lavoro dedicato al “Sistema informativo per la prevenzione” avevo avuto modo di apprezzare alcuni passaggi “profetici” a proposito di questo tema, contenuti nei suoi scritti del fatidico anno 1968.2 Ma rileggere per intero i suoi pensieri su argomenti apparentemente così difficili da trattare in maniera chiara e divulgativa è stato un vero piacere.
Introdurre nel nostro Paese la statistica medica, quella moderna, basata sui principi della sperimentazione fisheriana, dovette essere per Maccacaro impresa improba. A pochi anni dal termine di una guerra disastrosa e dalla caduta di un regime che, tra i tanti infausti demeriti, aveva avuto anche quello dell’autarchia economica e dell’isolamento culturale, la medicina nel nostro Paese si presentava arretrata, debitrice dalle scoperte che intanto stavano rivoluzionando il modo stesso di affrontare le malattie, soprattutto nel campo di quelle infettive. Ci si attardava ancora nel curare la tubercolosi con lo pneumotorace di Forlanini, gloria italica, certo, ma ormai largamente soppiantato dalle terapie antibiotiche di fresca sperimentazione clinica controllata. In Gran Bretagna, Austin Bradford-Hill conduceva il primo trial randomizzato sull’uso terapeutico della streptomicina nella terapia della tubercolosi tra il 1947 e il 19483 e Archibald Cochrane si accingeva a studiare la patologia polmonare dei minatori di Rhondda Fach nel Galles. Di lì a pochi anni, Watson e Crick avrebbero scritto una pagina fondamentale individuando la struttura del DNA umano, aprendo un campo nuovo alla genetica, fino a quel momento impantanata nello studio delle “razze” umane su basi fenotipiche. Nel depresso e deprimente panorama italiano, le idee nuove che Maccacaro introduceva, reduce da esperienze di studio svolte proprio in quelle stesse università e centri di ricerca che stavano producendo quelle straordinarie novità, dovettero apparire eccentriche, magari anche troppo anglofile, a un’élite accademica che non era stata affatto epurata dai suoi elementi più compromessi con il regime fascista. In particolare, la statistica viveva ancora e a lungo avrebbe continuato a vivere sotto l’influsso di Corrado Gini, scienziato di fama internazionale, grand commis del regime fascista, ispiratore decisivo delle politiche demografiche di Mussolini.4
Parlare di sperimentazione clinica e dei metodi statistici alla base del ragionamento inferenziale che derivava dai risultati dei trial suonava certamente alieno a molti orecchi.5 Anche la proposizione degli strumenti dell’informatica, in via di progressiva affermazione, che Maccacaro riferiva non convinceva di certo un uditorio incapace di immaginare che l’Arte d’Ippocrate potesse essere “ridotta” a regole linguistiche interpretabili da macchine non umane, anche se la proposta di Maccacaro era più quella di un divulgatore di novità incipienti e inevitabili con le quali era doveroso confrontarsi, che non la propaganda acritica del nuovo ordine. Gli scritti su questa tematica sono sempre lucidamente critici nei confronti di un approccio naif a calcolatori e macchine “pensanti”, tesi comunque a far apprezzare i vantaggi che potevano derivarne nel mutare una medicina solo orientata verso diagnosi e cura in una medicina che abbracciasse finalmente anche il terzo grande cardine della sua essenza: la prevenzione delle malattie. Maccacaro vedeva nella nascente informatica lo strumento per mutare il paradigma fondativo della medicina. Di lì a poco, avrebbe anche aggiunto un’altra condizione a questo mutamento di paradigma, quella sociale: la necessità, cioè, che per essere preventiva la medicina si confrontasse con le contraddizioni di un sistema sociale che vedeva il prevalere degli interessi dei pochi sui molti, dei ricchi sui poveri, di chi ha potere su chi potere non ne ha. Lo spartiacque del 1968 avrebbe portato Maccacaro a confrontarsi direttamente con i fermenti della società italiana, giunta a una svolta nella costruzione di una democrazia partecipata – per la prima volta nella sua storia – da tutto il popolo. Nei pochi anni seguenti, l’attività di Maccacaro sarebbe stata febbrile, fertile nel costruire iniziative di questa nuova cultura insieme agli studenti e di partecipazione con lavoratori e popolazioni coinvolte nelle lotte democratiche per il diritto alla salute.
Molto ancora resta da studiare e da scrivere sulla figura di Giulio Maccacaro. All’impresa di una biografia che ne collochi l’azione e il pensiero in una giusta luce storica è bene si appresti qualche giovane studioso, lontano dal tempo in cui Maccacaro agì, ma vicino e in empatia con gli ideali che sempre contraddistinsero il suo agire: l’amore per la scienza e il rigoroso rispetto per la persona umana.

L’articolo

Polvani C, Maccacaro GA.
Statistical evaluation criteria for individual hematological examination.
Med Lav 1693;54(1):17-41.

A chi aveva dimestichezza con le pagine della rivista fondata da Luigi Devoto nel 1901, l’articolo di Polvani e Maccacaro certamente dovette apparire anomalo. La direzione di Enrico Vigliani, subentrato ai pochi anni di Luigi Preti, aveva sì imposto una rinnovata attenzione agli sviluppi scientifici più aggiornati, ma quelli apparsi sulle pagine del periodico milanese erano stati soprattutto articoli legati alla clinica delle malattie professionali e alla tossicologia degli agenti nocivi. La silicosi e l’intossicazione da solfuro di carbonio avevano ricevuto grandi attenzioni sia negli ambulatori sia nei reparti di degenza della Clinica del lavoro di Milano, così come negli ambulatori delle più grandi aziende manifatturiere dove operavano i medici di fabbrica, attirando l’attenzione internazionale verso le conquiste in tema di eziologia professionale che la medicina del lavoro italiana stava ottenendo in quel travagliato dopoguerra. Ne facevano fede i numerosi articoli di illustri clinici e tossicologi stranieri ospitati nella rivista, spesso scritti nelle lingue originali degli autori (inglese, francese, spagnolo).

In inglese era anche questo contributo di Polvani e Maccacaro, presentato – come veniva dichiarato a piè della prima pagina – al «Symposium on the medical supervision of workers exposed to ionizing radiations» organizzato dall’agenzia europea per l’atomo EURATOM a Stresa dal 2 al 5 maggio del 1961.

L’articolo trattava del significato da dare allo statement dell’International Commission on Radiological Protection (ICRP) che aveva sottolineato:

«It should be recognized that the examination is directed toward determining the “normal” condition of the worker at the time of employment and toward noting any abnormalities that might later be confused with radiation damage».

Un tema, quello della “normalità”, che aveva illustri precedenti anche nel campo della medicina applicata al lavoro umano, ma che adesso si doveva cimentare con i nuovi orizzonti disegnati dalla medicina di laboratorio sempre più ricca di strumenti e di dati. Come comportarsi, quindi, nei confronti di esami ematologici in soggetti da avviare al lavoro in mansioni che prevedevano esposizioni a radiazioni al fine di discernere eventuali effetti precoci di tali esposizioni, da normale variabilità individuale? L’articolo tentava di proporre alcune risposte preliminari a questo genere di quesito.
Tuttavia, la trattazione della materia, così originale, assumeva nel testo un carattere più didattico e divulgativo che esemplificativo. Probabilmente consapevoli dell’uditorio al quale si rivolgevano, gli autori avevano scelto di descrivere passo passo le operazioni necessarie a caratterizzare la popolazione normale verso la quale cimentare i campioni provenienti dai lavoratori candidati all’assunzione nel lavoro a rischio. L’articolo era strutturato in tre paragrafi:

  1. Il problema della descrizione [di una popolazione normale; NdA];
  2. Lo studio della variabilità e delle sue fonti;
  3. Il problema della decisione.

Quest’ultimo paragrafo era chiuso da un sottoparagrafo dedicato ai “Criteri di riconoscimento del deterioramento individuale (follow-up)”, che considerava un aspetto del tutto nuovo nel campo della sorveglianza sanitaria in medicina del lavoro.
La trattazione era, per quanto possibile, piana, semplice e, soprattutto, alla portata di un lettore non avvezzo a ragionamenti di tipo statistico. Gli autori sottolineavano il fatto che esulasse dalle loro intenzioni l’approfondimento di aspetti specifici relativi a tecniche e problemi di natura statistica, mentre volevano mostrare come fosse possibile arrivare a costruire valori di normalità circa i dati di laboratorio raccolti sul profilo ematico dei soggetti candidati all’assunzione.
Nel primo paragrafo erano descritte le caratteristiche delle popolazioni dei dati ematologici raccolti. Venivano citate le tre principali forme distributive (gaussiana, poissoniana e binomiale). Si accennava anche alle anomalie nella forma della distribuzione di frequenza (eccessiva Curtosi e asimmetria, bimodalità eccetera) che potevano far pensare a scostamenti dal paradigma della distribuzione gaussiana e a trasformazioni che potevano sopperire a tali problemi, riavvicinando, quindi, la forma della distribuzione a quella gaussiana.
Nel secondo paragrafo erano elencate le diverse fonti di variabilità insite nei dati raccolti e ne venivano trattati significato e importanza. Emergeva qui anche l’interesse per il metodo della randomizzazione come paradigma del trattamento della variabilità incoercibile e altrimenti incontrollabile legata a fattori individuali. Si affermava che, per avere un campione di valori normali, era necessario che «[…] no form of active or passive selection which may bias the sampling itself» fosse in atto. Per il controllo della variabilità di caratteristiche d’interesse, influenti sui risultati e di rilievo per il giudizio finale, gli autori proponevano l’adozione di un cosiddetto «fractional design with partial confounding», che doveva limitare la moltiplicazione degli strati di un analogo disegno fattoriale semplice.
L’approccio era decisamente aggiornato sui metodi inferenziali di tipo frequentista, mutuati dalla sperimentazione scientifica di recente applicata al campo medico. Spuntava qua e la l’impostazione del disegno dell’esperimento alla base di ragionamenti soprattutto dedicati allo studio della variabilità.
Nel terzo e ultimo paragrafo veniva trattato il problema della decisione, ossia di come fare a scegliere in base ai risultati ottenuti. Gli autori ribadivano la diversità nei criteri di decisione basati su considerazioni di normalità statistica invece che di normalità clinica, lasciando il giudizio finale più a quest’ultima che all’altra, come ben chiarito nel seguente passaggio:

«It should be stressed that the biometrician receives data from which he extracts information which he returns to the person who has carried out the measurements: the correct use of this information remains the privilege and responsibility of the physician, particularly when confronted with such a serious decision as is that of admitting of rejecting from a certain work people wishing to be employed therein».

Tuttavia, nelle righe successive, concettualizzando il giudizio di idoneità all’assunzione come implicito test di appartenenza alla popolazione dei soggetti normali, Polvani e Maccacaro tornavano a descrivere le caratteristiche decisionali di un test d’ipotesi, chiarendo cosa s’intendeva per H0 o ipotesi 0, e ipotesi alternativa, con il corollario dei due tipi di errore: affermare sbagliando che l’ipotesi 0 era da respingere; affermare che l’ipotesi 0 era da accettare quando invece era da respingere.
Lucidamente e precocemente rispetto a dibattiti che sarebbero emersi molti anni dopo in campo biomedico, gli autori sostenevano che, essendo i due tipi di errore interconnessi tra di loro, il prevalere dell’uno o dell’altro, in termini di ampiezza del rischio di andarvi incontro, dipendeva dal punto di vista adottato:

«In our case, we should use respectively the terms of “risk of the recruitment applicant” and “risk of the recruiting body”»

Il paragrafo proseguiva suggerendo alcune regole pratiche per decidere dell’appartenenza di un singolo campione alla popolazione normale, citando il test di Irwin e il test di Chauvenet, quest’ultimo un po’ più severo nell’escludere campioni outlier. Veniva sottolineato che queste esclusioni valevano soprattutto per costruire la popolazione dei valori normali più che per decidere di un nuovo campione proveniente da un soggetto in fase di assunzione, il quale, invece, andava cimentato con le regole dell’inferenza statistica viste in precedenza.
Il paragrafo, come detto, si chiudeva con un breve ma interessante accenno alle problematiche del follow-up. Come trattare un soggetto che ai successivi controlli mostrasse un trend di risultati orientato verso i limiti di accettabilità? Detto che per tale soggetto la variabilità in gioco era solamente quella intraindividuale, i due autori accennavano a tecniche più complesse che tenessero in conto i problemi dell’autocorrelazione di misure ripetute sul medesimo soggetto e che si basassero su analisi di regressione. Infine, forse a conforto di qualche lettore scoraggiato da queste premesse, veniva citato un test di cui si sosteneva la semplicità pratica e l’utilità a questo scopo, il mean-square successive difference test di Neumann e coll. Tale test, a noi del tutto ignoto, dovette invece godere proprio in quel periodo di una certa diffusione, stando almeno alle tracce che se ne scoprono utilizzando il motore di ricerca Google.
Le brevi conclusioni del lavoro ribadivano l’importanza di dotare i medici del lavoro di strumenti «oggettivi e non equivoci» per procedere alla selezione dei lavoratori da adibire a questo genere di mansioni. Ne avrebbero tratto vantaggio tutti i soggetti coinvolti: oltre ai medici, anche i datori di lavoro e gli stessi lavoratori.
Questo articolo rimase isolato nel suo genere. Scorrendo gli indici della rivista degli anni successivi, non si trovano altri contributi simili per molto tempo. D’altronde, pochi anni dopo l’uscita dell’articolo, il mondo della medicina del lavoro e, ancor più, l’ambiente culturale che curava la rivista presso la Clinica del lavoro di Milano sarebbero stati investiti dall’ondata del ’68, universitario prima e operaio poi, con le sue rivendicazioni di maggior democrazia e la contestazione di un sapere accademico ritenuto inadeguato e “di parte”. Maccacaro avrebbe dedicato allora tutte le sue energie a favorire queste istanze di rinnovamento e, sull’altro versante, la stessa rivista avrebbe conosciuto nuovi temi e testimoniato di nuove esperienze.
Molti anni dopo, nel 1987, sarebbe stato proprio un allievo diretto di Maccacaro, Giorgio Duca, a riprendere quel tenue filo di una cultura statistica moderna e aggiornata in grado di raggiungere i “cultori della materia” attraverso una serie di articoli programmaticamente didattici sui diversi aspetti del metodo statistico applicato ai dati della medicina del lavoro e dell’igiene industriale.6-11
A noi, prima di lasciarvi alla lettura del testo originale, spetta solo formulare un’ultima domanda, forse un po’ retorica: quanto quegli sforzi hanno raggiunto lo scopo di accrescere la cultura statistica degli autori italiani di medicina e igiene del lavoro?

Bibliografia e note

  1. Maccacaro GA. Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976. Milano, Feltrinelli, 1979.
  2. Baldasseroni A, Biffino M. Sistema informativo per la prevenzione. Cap. 56 In: Alessio L, Franco G, Tomei G (eds). Trattato di medicina del lavoro. Padova-Milano, Piccin editore, 2015; pp. 631-638.
  3. Medical Research Council. Streptomycin treatment of pulmonary tuberculosis. BMJ 1948;2(4582):769-82.
  4. Per una puntuale descrizione delle contrapposizioni tra Gini e Fisher ved: Cassata F. Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica. Roma, Carocci, 2006; pp. 142-148.
  5. Baffigi A. Cultura statistica e cultura politica: l’Italia nei primi decenni unitari. Quaderni dell’Ufficio Ricerche Storiche n.15, maggio 2007.
  6. Duca PG. Raccolta dei dati e approssimazione delle misure. Med Lav 1987;78(3):250-53.
  7. Cortinovis I, Duca PG. Rappresentazione dei dati. Med Lav 1987;78(4):337-43.
  8. Braga M, Duca PG. Analisi esplorativa dei dati. Med Lav. 1988;79(2):150-60.
  9. Duca P. Sintesi numerica di dati statistici. Med Lav 1989;80(2):164-77.
  10. Braga M, Duca P. Elementi di calcolo delle probabilità-II. Med Lav 1989;80(6):517-24.
  11. Duca P. Valori di riferimento ed intervalli di tolleranza. Med Lav 1991;82(3):195-212.
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